Divisi dall’esterno e divisi anche all’interno: un’atavica frammentazione politico-tribale li rende facili prede delle grandi potenze, tra le quali fanno da cuscinetto.
“L’instabilità delle relazioni fra curdi è frutto di un complesso di circostanze. Le poche vie di comunicazione e la poca accessibilità, specie in inverno, portano all’isolamento di intere tribù. […] I confini delle tribù sono inoltre tagliati da quelli internazionali e il differente clima politico dei paesi in cui vivono le tribù ostacola ulteriormente la loro unità” si legge in Geographic Intelligence Report – The Kurds, documento stilato per l’anno 1959 dagli analisti di Langley e dal quale si evince l’attenzione mostrata dalla CIA, sin dai primi anni della Guerra fredda, per una minoranza etnica divisa fra quattro stati oltreché frammentata nel suo tessuto interno.
Divisioni che hanno origine lontana e spesso acuite dalla politica delle potenze locali (i quattro stati che confinano con la regione del Kurdistan, l’Iran, l’Iraq, la Turchia e la Siria) ed estere: coinvolgere i curdi in conflitti con la promessa di autonomia ed indipendenza per poi disattendere ogni accordo.
Nel gennaio 1946 l’Unione Sovietica sostiene la nascita di una repubblica curda nell’Azerbaijan occidentale, provincia settentrionale dell’Iran.
Il piccolo stato ha come capitale Mahabad, conta circa 16 mila abitanti ed è guidato Qazi Moahammad (presidente) e da Mustafà Barzani capo dell’esercito e anima del Partito Democratico del Kurdistan (KPD). La Repubblica di Mahabad è funzionale ai sovietici per convincere Teheran ad elargire concessioni petrolifere tanto che, già nell’aprile dello stesso anno, il ritiro dell’Armata rossa priva la piccola repubblica del sostegno militare. Ne consegue che, fra novembre e gennaio, un’offensiva dell’esercito iraniano porta rapidamente al collasso lo stato curdo del Mahabad, alla morte di Qazi e alla fuga in Russia di Barzani che resterà in Urss per undici anni.
La vicenda dell’effimera repubblica non disillude il leader del KPD sulla genuinità del sostegno sovietico, tanto da spingerlo ad accettare la proposta russa di tornare in Iraq per dare man forte al generale ʿAbd al-Karīm Qāsim, artefice del colpo di stato che nel 1959 ha deposto re Faysal II e che ha avvicinato il paese all’Unione Sovietica. Un cambiamento politico che convince Barzani che i tempi siano maturi per rivendicare l’autonomia del Kurdistan iracheno.
Tuttavia l’avvicinamento di Qāsim alla Russia ha finalità più di tipo economico e politico che non di reale adesione ai principi socialisti, come dimostrano la messa al bando del partito comunista e l’epurazione dei membri del Baath. Inoltre il nazionalismo che anima la nuova giunta è ostacolo a qualsiasi pretesa autonomista.
Respinte le richieste del leader curdo, i rapporti fra Barzani e Qāsim si deteriorano fino a sfociare agli inizi degli anni Sessanta in un conflitto nel quale il Presidente della Repubblica Araba Unita Nasser gioca un ruolo di primo piano dando sostegno ai curdi contro il governo di Baghdad, reo di non avere aderito al progetto panarabo. Ulteriore appoggio alla fazione di Barzani arriva da Mosca, pronta ad sostenere uno stato curdo per estendere la sua influenza politica in Medio Oriente e per poter controllare le grandi risorse minerarie del Kurdistan iracheno.
La morte di Qāsim e il golpe che porta al potere il leader baathista Ahmed Hasan al- Bakr cambia ancora una volta le carte in tavola. Al-Bakr rafforza gli accordi diplomatici e di cooperazione con l’Unione Sovietica, mentre nella vicina Siria la “rivoluzione correttiva” in seno al Baath siriano consente ad Hafiz al Assad di imporsi come nuovo leader e di intensificare le relazioni con l’Urss che, in cambio di un programma di investimenti in ambito civile e militare, riceve da Damasco lo scalo navale di Tartus.
L’ottenimento di una base mediorientale fa venire meno per Mosca il ruolo strategico dei curdi, ora stretti nella morsa dei due regimi baathisti: la Siria che dal 1963 conduce una politica di arabizzazione delle province nord occidentali (Kurdistan Rojava) e l’Iraq dove nel 1975 il fallimento della rivolta curda provoca dure repressioni da parte del governo di Baghdad, nonché la frammentazione politica del fronte curdo con la nascita dell’Unione Patriottica del Kurdistan (UPK) di Jalal Talabani, in aperto conflitto con la leadership del PDK di Barzani e il PKK (Partito curdo dei Lavoratori) di Abdullah Ocalan.
Una ulteriore divisione alla quale ricorrono ancora una volta le potenze locali per dirimere questioni territoriali.
Nato in Turchia nel 1979, il PKK è subito messo al bando dalle autorità turche come organizzazione terroristica. Ocalan e molti suoi sodali trovano rifugio in Siria che, negli anni Ottanta, contesta duramente la costruzione della diga di Ataturk lungo il confine turco-siriano. Ospitalità che dura poco, perché i militanti curdi vengono riconsegnati alla Turchia come tentativo di normalizzazione delle relazioni fra i due paesi.
A partire dagli anni Duemila, la comunità internazionale sembra affrontare con maggiore attenzione la questione curda. Italia e Germania, ad esempio, forniscono addestramento ed equipaggiamenti ai peshmerga del Kurdistan iracheno in chiave anti-terroristica, come si è visto nel corso della guerra al Daesh nel nord Iraq e nella Siria settentrionale. Un sostegno che, suo malgrado, è condizionato dalla prudenza di una diplomazia internazionale che cerca di non creare tensioni con la Turchia, alleato strategico della Nato in Medio Oriente e principale oppositore a qualsiasi forma di indipendentismo curdo, come dimostrato un anno fa, quando Ankara ha attaccato ed occupato la roccaforte siriana di Afrin. Ma la difesa della città è stato un impegno al quale Damasco ha sempre guardato con sospetto: a proteggere Afrin e Kobane sono gli uomini del PYD (Partito Unione Democratica curdo-siriana) che hanno condotto la guerra senza mai schierarsi, e col solo scopo di vedere riconosciuta l’indipendenza del Kurdistan Rojavi. Inoltre, nella stessa area controllata dal PYD, erano presenti circa venti basi americane, altro elemento di preoccupazione per il governo di Assad.
In settanta anni dunque i curdi hanno rivestito una certa importanza solo in occasione di conflitti, quando cioè potevano essere sfruttati come pedine sul grande scacchiere mediorientale. Inoltre, riprendendo il rapporto della CIA, le profonde divisioni interne sono spesso foriere di gravi danni, come dimostrato dal referendum del settembre 2017.
All’indomani della caduta di Saddam, la Regione Autonoma del Kurdistan è stato un esperimento politico importante nella storia delle relazioni fra curdi e governo centrale iracheno, quest’ultimo rappresentato per ben due mandati dal leader UPK Jalal Talabani che, con le armi della politica e della diplomazia, ha favorito un rafforzamento dell’autonomia della regione. La guerra all’Isis ha cambiato tutto. Forti del ruolo giocato contro il Daesh, i miliziani curdi (in particolare quelli del PDK) hanno iniziato ad avanzare richieste di sempre maggiore autonomia al governo centrale fino ad organizzare un referendum che ha avuto come unici effetti l’intervento militare di Baghdad (che ha sentito minacciata la propria sovranità) e la presa di distanze da parte statunitense. L’illusoria convinzione di poter raggiungere con un semplice voto ciò che si è inseguito per oltre settanta anni, ha allontanato ancora di più la prospettiva di uno stato indipendente.
Forse Talabani aveva compreso più di altri che l’unica via percorribile per i curdi è quella politica e diplomatica, evitando colpi di mano e rivoluzioni che non sortiscono effetti, se poi alle spalle manca un deciso appoggio internazionale. Anche perché è ormai abbastanza chiaro che nessuno dei quattro stati confinanti con il Kurdistan, né le potenze internazionali, si assumerà l’onere e la responsabilità storica di avallare e di sostenere la nascita di una patria curda.
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Divisi dall’esterno e divisi anche all’interno: un’atavica frammentazione politico-tribale li rende facili prede delle grandi potenze, tra le quali fanno da cuscinetto.