
Dal 1972, le consultazioni popolari hanno tracciato e corroborato l’integrazione europea. Ora sembrano metterla in dubbio e la destabilizzano.
Il referendum britannico ha sconvolto l’Europa. Contro ogni aspettativa il Leave ha battuto il Remain (52% a 48%). L’affluenza è stata alta e i risultati uniformemente distribuiti. Le grandi eccezioni sono state Londra, l’Irlanda del Nord e la Scozia, favorevoli a restare nell’Ue. Senza queste aree il partito del Leave avrebbe ottenuto una vittoria schiacciante. Le motivazioni di questo risultato sono per lo più negative. Gli Inglesi hanno votato a grande maggioranza contro le ingerenze esterne, le élite, gli esperti e l’immigrazione. Hanno anche votato contro l’allarmismo e a favore di un mix di autodeterminazione e cambio di rotta ma resta da vedere come gestiranno questa nuova autonomia. Al momento la classe dirigente, alle prese con gli esami di coscienza e la selezione della leadership, non ha molto da offrire in termini di visione.
Questa situazione è tutt’altro che unica. Quando i politici nazionali applicano la democrazia diretta all’integrazione europea, l’esito più comune è questo. Le ragioni sono due. Tanto per cominciare l’integrazione europea è un complesso equilibrio di negoziati e compromessi. Per favorirla non servono solo norme e ordinanze, circolazione delle informazioni e coordinamento dei paesi coinvolti, ma anche una concezione condivisa di ciò che è e non è possibile. Da questo punto di vista la politica dell’Ue è molto diversa da quella dei singoli paesi, e i leader nazionali faticano a spiegare ai cittadini la loro partecipazione a questo sforzo collettivo.
La seconda ragione è la tendenza dei politici a indire referendum per ottenere una manifestazione di fiducia dall’elettorato più che indicazioni precise sul da farsi. Indipendentemente da come viene formulata la domanda, lo scopo ultimo è chiedere se il governo deve mantenere o cambiare la rotta. La prima è un’opzione tanto complessa quanto l’Ue; la seconda, il più delle volte, è ancora più incerta.
Quando vince il governo, le conseguenze sono ovvie. Nel 1972 la Francia chiese l’approvazione del popolo rispetto al primo grande allargamento della Comunità europea, un referendum ormai da tempo dimenticato visto che gli elettori si sono schierati dalla parte del governo. La stessa cosa si può dire dei vari referendum che hanno ratificato adesioni nazionali o revisioni dei trattati europei. I governi che li hanno indetti – per scelta o per adempiere a requisiti costituzionali o legali – hanno ottenuto le conferme che cercavano e hanno continuato sulla stessa strada.
Le eccezioni si presentano nei casi in cui la politica del governo è ritenuta controversa, come nel caso del referendum britannico del 1975 sull’adesione e di quello greco del 2015 sui termini del piano di salvataggio. In entrambi i casi i governi cercavano una dimostrazione del supporto popolare che mettesse a tacere l’opposizione sia interna che esterna alla coalizione di governo; in entrambi i casi hanno ottenuto il voto desiderato. Ciò non ha semplificato le relazioni tra l’esecutivo nazionale e l’Europa, ma ha conferito maggiore legittimità al governo in carica. Il referendum del 1992 sul Trattato di Maastricht in Francia illustra una dinamica diversa. Il governo francese aveva indetto il referendum pensando di ottenere una vittoria facile che avrebbe espresso l’appoggio del popolo anche in altri ambiti della sua politica, ma lo scarto minimo ha dimostrato che l’attaccamento all’Europa non è fonte di legittimità assicurata per un governo impopolare.
Il fattore determinante risiede in ogni caso nelle ragioni dell’elettorato e non in quelle della classe dirigente. Che i governi cerchino approvazione per le proprie politiche non è una novità. La domanda più interessante è perché gli elettori scelgano di votare sì o no quando posti di fronte a un aut autsu decisioni politiche così complesse. A volte capita che i votanti esprimano un giudizio collettivo cauto e ponderato, in linea con le aspirazioni dei politici al governo. Altre volte, invece, rispondono al referendum in maniera imprevedibile. In questi casi il voto è altrettanto cauto e deliberato, anche se i risultati sono diversi da quelli sperati dal governo.
Il primo referendum norvegese sull’adesione alla Comunità europea nel 1972 provocò un terremoto nella politica del Paese e rappresenta forse il caso più simile a quello che sta succedendo oggi nel Regno Unito. Il referendum danese sul Trattato di Maastricht e quelli irlandesi sui Trattati di Nizza (2001) e Lisbona (2008) non sono stati altrettanto sconvolgenti. I governi non hanno ottenuto l’esito sperato in termini di sostegno popolare a una politica specifica, ma hanno saputo escogitare rapidamente soluzioni alternative che gli hanno permesso di indire un secondo referendum.
Non è stato altrettanto facile ripetere i referendum di Francia e Paesi Bassi sulla Costituzione europea (2005), due plebisciti difficili da ignorare. In entrambi i casi il governo non è riuscito a conquistare l’elettorato e ha dovuto adottare una soluzione che gli permettesse di fare a meno dell’approvazione popolare. Il Trattato di Lisbona è, essenzialmente, la Costituzione europea respinta da Francesi e Olandesi, spogliata del simbolismo costituzionale. Non è difficile riconoscere in questa manovra una cinica forma di depistaggio: il governo approfitta della mancanza di un’alternativa ben definita per riconfezionare le sue preferenze senza, di fatto, modificarne i contenuti.
Il Trattato di Lisbona non è un caso isolato. In un referendum del 2000 la popolazione danese ha votato contro l’adesione all’euro, ma in base alla politica monetaria della banca centrale di Danimarca il Paese partecipa alla moneta unica a tutti gli effetti, fuorché nel nome. Il governo olandese si è trovato a dover affrontare una situazione simile quest’anno per via di un referendum popolare sulle relazioni commerciali tra l’Ue e l’Ucraina. Il gruppo che ha richiesto questo referendum sperava di mettere in imbarazzo il governo piuttosto che influenzarne la linea. Il governo ha reagito cercando di scoraggiare l’affluenza affinché restasse sotto la soglia minima del 30%. Vedendo fallire questa strategia, ha cercato di minimizzare le conseguenze. Resta da vedere se il governo danese riuscirà a ignorare il referendum.
Un’analogia calzante per queste situazioni inaspettate è il film di fantascienza Il pianeta proibito. Nel film i personaggi principali affrontano una serie di mostri sempre più terrificanti mentre cercano di capire cosa sta succedendo nella realtà che li circonda. La situazione non fa che peggiorare: più i personaggi hanno paura, più spaventosi sono i mostri in cui s’imbattono. Alla fine si scopre che questa dinamica svolge un ruolo fondamentale nell’influenzare il corso degli eventi. Il pianeta custodisce infatti una macchina che trasforma i pensieri in realtà; più i personaggi interagiscono con la macchina, più questa alimenta e dà vita ai loro demoni interiori.
Il funzionamento dei referendum è simile, soprattutto nel contesto europeo. L’integrazione europea non è solo un fenomeno complesso, è anche qualcosa che alimenta le preoccupazioni della popolazione perché poco familiare. I referendum dirigono l’attenzione del popolo sugli aspetti dell’integrazione europea che fanno paura, e a volte trasformano le paure in realtà. La mancanza di alternative valide e ben definite diventa improvvisamente chiara. I Norvegesi non hanno voluto aderire alla comunità europea, per cui adesso si ritrovano con tutti i doveri e pochi dei privilegi di un Paese membro; lo stesso vale per la Danimarca e l’euro. I Francesi e gli Olandesi hanno cercato di scongiurare un’Europa tecnocratica e senz’anima, ma nel farlo hanno sacrificato sia il simbolismo che la visione di una Costituzione europea, senza alterare il contesto istituzionale. Ora i Britannici hanno votato per essere indipendenti ma, di fatto, ci hanno rimesso in autonomia e influenza.
Col senno di poi, l’esito del referendum britannico non è sorprendente. La paura è un sentimento pericoloso quando si tratta di referendum, e processi complicati come l’integrazione europea non si prestano a una scelta popolare tra sì e no. Volendo biasimare qualcuno per l’esito del referendum, la colpa va data alla classe dirigente del Regno Unito. Ma i politici britannici possono trarre consolazione dal fatto che sono in buona compagnia. Molti altri leader europei hanno commesso errori simili.
Dal 1972, le consultazioni popolari hanno tracciato e corroborato l’integrazione europea. Ora sembrano metterla in dubbio e la destabilizzano.