Una notizia nascosta nei titoletti a fondo pagina butta lì un titolo agghiacciante: ogni giorno nella capitale una persona rimasta senza lavoro si toglie la vita. Uno spaccato legato al miracolo economico indiano, o all’idea che se ne è fatta una parte di India.

La cifra è stata ricavata facendo il netto dei suicidi totali nella capitale rilevati dal National Crime Record Bureau per il 2012: 1.899 nella sola Delhi, 135.445 in tutto il paese.
Le motivazioni sono di varia natura: contadini indebitati nel tentativo di salvare il proprio terreno, col raccolto spazzato via da una carestia o dal monsone; la pressione sociale esercitata sulle nuove generazioni – specie gli studenti universitari – terrorizzati dalla possibilità di deludere i propri genitori/amici; il clima di competitività insostenibile, in particolare tra i colletti bianchi del privato e nelle società hi-tech, una mattanza continua per assicurarsi un posto al sole nel miracolo economico indiano che non c’è.
Nello specifico di Delhi, i disoccupati superano le casalinghe tra chi decide di farla finita, un fenomeno che viene legato apparentemente alle migrazioni interne, migliaia di giovani e meno giovani che arrivano a Delhi in cerca di lavoro, lasciandosi alle spalle una vita misera – ma spesso dignitosa – delle campagne per provare ad incrementare i guadagni, inseguendo un sogno indiano pompato incessantemente dai media nazionali e internazionali.
Molti tra chi vive per strada a Calcutta – non negli slum, ma letteralmente sul marciapiede, se ne vedono in quantità a Sudder Street, la via degli ostelli per stranieri – sono una sorta di elemosinante stagionale: è gente che in campagna ha una casa (di fango), del bestiame, spesso dei terreni, ma che nella stagione non proficua per l’agricoltura si trasferiscono in città tentando di fare lavoretti come il pedalatore di riksha, il muratore. Con quei soldi poi si affrontano le spese straordinarie – ad esempio la dote per la figlia da sposare o comprare un terreno al figlio, come assicurazione sul futuro.
Altri invece partono letteralmente all’avventura, abbandonano tutto come fossero eroi, pronti a prendere il toro per le corna e viversi questo sogno indiano. Partono con aspettative alte, attratti dalle “luci della città”, scontrandosi poi con una realtà urbana atroce, condizioni di vita disumane e possibilità lavorative ridotte al minimo. Chi non regge l’impatto, chi non riesce ad affrontare il ritorno da perdente in campagna (o anche chi non se lo può permettere), muore di fame, di malavita o di suicidio.
La distanza tra le aspettative, il racconto di un’India immaginata, e la realtà sono, letteralmente, letali.
Una notizia nascosta nei titoletti a fondo pagina butta lì un titolo agghiacciante: ogni giorno nella capitale una persona rimasta senza lavoro si toglie la vita. Uno spaccato legato al miracolo economico indiano, o all’idea che se ne è fatta una parte di India.