
Laboratorio del multiculturalismo, della sua crisi e della sua rinascita. In Olanda i “partiti dei migranti” conquistano anche lo spaesato elettorato di sinistra.
La fine del multiculturalismo dei Paesi Bassi, salutato negli anni ’80 e ’90 come un modello di convivenza tra religioni, ha una data precisa: ad Hilversum, cittadina alle porte di Amsterdam, il 6 maggio 2002 alle 18:05 i proiettili che lasciarono sull’asfalto il leader populista Pim Fortuyn, uccisero l’uomo e colpirono al cuore quell’esempio di pragmatismo e tolleranza. C’è poi un’altra data, meno nota, che segna invece l’inizio del post-multiculturalismo olandese: il 13 novembre 2014, due parlamentari del partito laburista, Pvda, vennero cacciati dal gruppo. Tunahan Kuzu e Selçuk Öztürk erano il gancio dei socialdemocratici con l’influente ed organizzatissima comunità turca d’Olanda ma un controverso studio abbracciato dal partito, che indicava come il 90% dei turco-olandesi vedesse con un certo favore l’ISIS, divenne la causa del divorzio.
I due se ne andarono e di lì a poco vide la luce Denk, il primo partito multietnico d’Olanda e da marzo 2017, il primo in Europa a poter contare su una rappresentanza parlamentare. Ozturk e Kuzu, nati entrambi in Turchia hanno portato con loro alla Tweede Kamer, la Camera dei deputati, anche Farid Karzan, nato in Marocco. Con appena tre parlamentari Denk ha provocato un terremoto: l’arco politico ha emarginato da subito il “migranten partij“, partito dei migranti, e la stampa non è stata tenera: il Telegraaf, quotidiano più letto del Paese, ha lanciato una vera e propria campagna contro Denk; la sua presenza in Parlamento, scrive il noto commentatore politico Wouter Dewinther, sarebbe la prova del fallimento dell’integrazione mentre il suo leader Tunahan Kuzu e il numero due Ozturk veri e propri “cavalli di Troia” di Erdogan in Olanda.
“L’arrivo di Denk non è certamente una disgrazia ma anzi un segno di emancipazione”, dice al contrario Floris Vermeulen, docente all’Università di Amsterdam UvA ed esperto di partiti delle minoranze. “Per la prima volta una fetta consistente di elettorato da sempre escluso dal processo democratico partecipa alla vita politica.” Vermeulen, che studia fin dagli anni ’90 il comportamento elettorale delle minoranze, dal 2010 ha osservato un importante cambiamento: “Anni di propaganda contro islam ed immigrati hanno fatto breccia e i partiti tradizionali, anche quelli di sinistra, hanno stretto la cinghia sulla tolleranza per cercare di recuperare il voto olandese”. I 3 seggi agguantati dal “partito turco” e la ramificazione nelle grandi città però, potrebbero segnare il punto massimo: “Siamo probabilmente prossimi al picco”, spiega ancora Floris, “alle scorse elezioni solo il 50% della comunità turca, i più conservatori e filo-Erdogan, hanno votato per Denk e alcune tensioni interne sono già visibili”. Le fratture della madre patria, tra filo-Erdogan, curdi, gulenisti e laici sono riprodotte in scala anche nei Paesi Bassi e sul lungo periodo quella guerra importata da lontano può mettere un’ipoteca sul partito turco.
Denk in realtà non è il primo partito di immigrati e seconde generazioni. L’Aja, in questo senso, è un vero e proprio laboratorio: dal 2010 siedono in consiglio comunale ben 2 partiti di ispirazione islamica, il Partij van Eenheid (Partito dell’Unità) e Islam Democraten (Democratici dell’Islam) votati soprattutto nei quartieri popolari di Schilderswijk e Transvaal, aree dove la popolazione immigrata rappresenta il 90% dei residenti. La stampa olandese si è sempre riferita a Schilderswijk come ad un “ghetto”, un esempio d’integrazione fallita dove a lungo si è creduto fossero attive cellule dell’ISIS ma in realtà centri islamici, caffè turchi e pasticcerie marocchine che si avvicendano nell’affollata Hobemastraat sono solo parte di un microcosmo lontano poche centinaia di metri dai palazzi olandesi del potere e anni luce dalla cultura dell”Olanda maggioritaria.
Fatima Faid, padre algerino e madre portoghese è cresciuta a Schilderswijk. Da 10 anni è consigliera comunale a Den Haag, impegnata nella lotta alla profilazione razziale e all’emarginazione dei non nativi. “Fino ad ora le minoranze hanno aspettato fossero i bianchi a dar loro spazio ma adesso vogliono scegliere il loro destino”. Bij1 è un partito diverso da Denk: i suoi focus sono la “decolonizzazione” dell’Olanda e la diversità di genere con un bacino elettorale che affonda le radici nelle comunità nere, soprattutto quelle originarie delle ex colonie. In tanti però si chiedono: perché partiti tradizionali come il Groenlinks, che puntano molto sulla diversità, non funzionano più? “Socialisti, socialdemocratici e verdi hanno avuto la loro occasione di coinvolgere le minoranze ma hanno fallito”, spiega Fatima, eletta in una lista locale ma a livello nazionale attiva con Bij1. “Ci stiamo prendendo quello spazio politico che fino ad ora c’era stato negato”.
Nell’attuale parlamento non ci sono deputati neri e i 3,8 milioni di cittadini dei Paesi Bassi con origini non occidentali sono pesantemente sotto rappresentati. Per la società “mainstream” olandese, il credo dell’integrazione è ancora la bussola della convivenza ma oltre ai populisti anche le minoranze considerano superato il multiculturalismo: “Noi puntiamo su “super-diversity” un’idea molto più attuale del multiculturalismo”, dice ancora la consigliera di Den Haag.
Il fatto che queste formazioni siano nate per dare una risposta alla comunità islamica preoccupata dall’islamofobia dilagante nel paese oppure dalla comunità nera, per chiedere all’Olanda di aprire, finalmente, un dibattito sul periodo coloniale, solleva diversi interrogativi sul ruolo dei partiti tradizionali, soprattutto di quelli di sinistra, che negli anni ’60 avevano fatto dell’integrazione una bandiera. Per Socialisti e Laburisti, complici anche risultati elettorali deludenti, le minoranze non sono più una priorità.
So Roustayar, attivista gender fluid ed ex rifugiata di origine afgana è tra i fondatori di BIJ1 ad Amsterdam. Chi anima il partito? “Nel direttivo trovi olandesi e minoranze”, spiega So “ma soprattutto ci siamo preoccupati che la diversità di genere fosse ben rappresentata”. Candidati LGBTIQ, gender fluid e le femministe della comunità nera sono solo alcune tra le tante anime che la leader del movimento Sylvana Simons, ex presentatrice tv nata a Paramaribo in Suriname, cerca di sintetizzare. “Far convivere queste voci ed armonizzarle non è facile”, ammette So “d’altronde le esigenze di una persona etero e di una transgender non sempre sono le stesse”. Ma i problemi sono anche altri: le comunità caraibiche, surinamesi e africane sono conservatrici e la popolarità del socialismo “multietnico” non sempre è sufficiente a far digerire a tutti il forte accento sui diritti civili. In questo senso il movimento femminista-multietnico, che non può contare sulla fitta rete associativa (e finanziaria) della comunità turca che invece ha agito come infrastruttura per Denk, si affida esclusivamente alla notorietà di alcuni intellettuali e volti noti che sostengono la lista e ai volontari. Eppure, secondo Floris Vermeulen è il partito multietnico con più chance di uscire dal recinto identitario: “Bij1 presenta delle caratteristiche molto interessanti anche per gli elettori progressisti olandesi in cerca di un’alternativa ai movimenti tradizionali. In questo senso il suo bacino elettorale potenziale è di gran lunga superiore a quello di Denk“. I “partiti dei migranti” potrebbero essere, insomma, quella novità per ripartire che la sinistra europea decimata dal boom del populismo sta cercando ormai da tempo.
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