“L’America non è comoda come sembra”, spiega l’autore di “Lo schiavista” Paul Beatty, che valuta il suo Paese come fosse l’imbottitura di una sedia. “Trump sta erodendo diritti che sembravano acquisiti”. Ma alla maggioranza della popolazione, sostiene, non importa poi così tanto
«Eravamo abituati a chiederci spesso: come dobbiamo comportarci? Ora la domanda è diventata: chi siamo?». Così sintetizza la crisi d’identità degli Stati Uniti sotto la presidenza Trump lo scrittore Paul Beatty, vincitore nel 2016 del «National Book Critics Circle Award» e del «Man Booker Prize» (è stato il primo statunitense a vincere il più importante premio letterario britannico) per il suo romanzo Lo schiavista, pubblicato in Italia da Fazi Editore.
Paul Beatty, nel prologo de Lo schiavista, pubblicato nel 2015, la voce narrante afferma, attraverso una similitudine con l’imbottitura di una sedia, che l’America non è comoda come sembra. A suo avviso, ciò risulta vero ancora oggi?
Ho impiegato cinque anni a scrivere quel libro; la visione che vi è racchiusa racconta una realtà quasi permanente, per quanto riguarda gli Stati Uniti: è sempre stato così e probabilmente continuerà ad esserlo in futuro. Alla domanda se Trump abbia reso questa sedia ancora meno comoda risponderei di sì, da un punto di vista ciclico senz’altro. La sedia oggi è meno comoda di quanto non lo fosse sotto Obama. Non posso tuttavia parlare a nome di tutto il Paese, è ancora presto per conoscere l’impatto a lungo termine delle sue politiche. Le cose che ha fatto riguardano principalmente minoranze: alla maggioranza della popolazione non importa poi così tanto.
In seguito al Muslim Ban e ad altre politiche adottate, pensa che l’America oggi abbia seri problemi d’identità?
Non so se l’America sia ora più in crisi con la sua identità di quanto non lo sia sempre stata: in un certo senso, mi sembra che gli Stati Uniti non siano mai usciti dallo status di colonia. Si dice che Trump, Obama, siano la faccia del Paese, per cui se il presidente cambia, cambia il Paese. Ovviamente non è così. Per come la vedo io, è come se il presidente sia quella figura posta sulla prua delle navi: è semplicemente la faccia della nave, ma poi il Paese è guidato da altre persone. È sicuramente un Paese che sta facendo fatica a incorporare e a dare voce a nuove minoranze e nuove categorie sociali. Recentemente, dopo la manifestazione neo-nazista a Charleston, ho sentito un politico repubblicano dire: «Questo non è un Paese per nazisti». Per me è stato molto interessante: siamo cresciuti nella retorica che gli Stati Uniti fossero un Paese per tutti, anche per nazisti. Altra cosa interessante è che in America abbiamo di fatto due partiti che immaginano di parlare al cuore del Paese quando in realtà la categoria sociale a cui si rivolgono – il proletario bianco degli anni ’50 – non esiste più o sta ormai scomparendo.
Il linguaggio utilizzato dai Repubblicani differisce in maniera sensibile da quello utilizzato dai Democratici?
Vi sono differenze ma credo che siano individuali. Diverse persone pensano – io non sono fra queste – che Bernie Sanders e Donald Trump, nelle loro campagne elettorali, avessero utilizzato lo stesso tipo di linguaggio, lo stesso tono. Un elemento da rilevare è come molti giovani ben corrispondano a politici come Bernie Sanders, poiché egli utilizza una retorica tipica degli anni ’60 che richiama un periodo più idealista, mentre invece Trump si rifà a una retorica anni ’50, più puritana e nazionalista, la stessa che abbiamo visto in azione durante la Brexit. A volte le tematiche trattate dai due differiscono, anche se le parole chiave che usano sono più o meno le stesse per entrambi.
L’ha convinta la condanna di Trump espressa due giorni dopo i fatti di Charlottesville?
C’è poco da rimanere convinti: un giorno dice una cosa, il giorno dopo ne dice un’altra. Quelli che lo definiscono un proto-fascista non hanno tutti i torti. L’impressione è che non gli importi poi molto.
Ritiene che sotto Trump si sia fatto un grande passo indietro in termini di progresso di diritti sociali e civili?
Dipende. Se sei un transessuale nell’esercito, sotto Trump hai fatto dei passi indietro. Se sei uno studente che proviene da uno dei Paesi compresi nel Travel Ban, avrai molte più difficoltà a venire negli Stati Uniti. Trump sta pian piano erodendo tutta una serie di diritti che sembravano acquisiti. Queste cose stanno avendo un certo impatto. Personalmente, non posso dire che la mia libertà d’espressione sia stata scalfita, è la stessa di prima. Dipende molto da con chi parli, gli stessi sondaggi sono altalenanti.
La sua prosa è molto brillante: quali sono i suoi punti di riferimento?
Le influenze sono tantissime; tra le maggiori mi vengono in mente Hannah Arendt, Kurt Vonnegut, Hegel – leggendo Fenomenologia dello spirito ho imparato molto su come ci si relazioni nei confronti dell’altro. Più recentemente ho molto apprezzato un romanzo di W. G. Sebald, Austerlitz. Ricordo una citazione da Kafka, che recita: «cosa posso avere in comune con gli ebrei quando non ho nulla in comune con me stesso?».
“L’America non è comoda come sembra”, spiega l’autore di “Lo schiavista” Paul Beatty, che valuta il suo Paese come fosse l’imbottitura di una sedia. “Trump sta erodendo diritti che sembravano acquisiti”. Ma alla maggioranza della popolazione, sostiene, non importa poi così tanto