Donald Trump condannato: quali effetti avrà la condanna sulle elezioni di novembre e sulla popolarità di Trump presso il suo fedelissimo elettorato? E’ la prima volta nella storia americana che un ex presidente viene condannato.
Il rematch tra Joe Biden e Donald Trump non è più fantascienza. Ciò che fino a qualche settimana fa poteva sembrare soltanto una remota suggestione, destinata a esaurirsi bruscamente sui banchi di qualche tribunale statunitense per le vicende legali che interessano l’ex presidente, dopo i caucus dell’Iowa di metà gennaio è un’ipotesi più che concreta.
Si badi bene: il processo delle primarie repubblicane è appena iniziato e i delegati del poco popoloso Stato del Midwest, alla convention di metà luglio, quando il candidato sarà ufficializzato, rappresentano meno del 2% del totale. E, ancora, i processi in capo al tycoon newyorchese non sono affatto svaniti nel nulla, né lo è la doppia decisione di escluderlo dalla corsa alla nomination da parte di altri due Stati, Colorado e Maine.
Ma il successo a valanga di Trump, certamente atteso seppur non ancora certificato, è la dimostrazione che, al di là di tutto, l’ex presidente continua ad avere un enorme ascendente sugli elettori repubblicani e, in particolare, sulla base più movimentista. Tanto che la rivincita contro Biden, a novembre, a oggi, è lo scenario più probabile.
Al voto in Iowa, Trump è arrivato da favorito. Del resto, la sua presa sul Partito repubblicano è ancora forte: ancor prima dell’annuncio sulla sua nuova candidatura, il magnate godeva del consenso di oltre i due terzi degli elettori del suo schieramento, come riportato da Associated Press. Non solo: l’agenda dei repubblicani è talmente subordinata agli indirizzi e alle scelte di Trump che nei mesi di avvicinamento al primo appuntamento delle primarie i suoi sfidanti si sono ben guardati dal criticarlo per paura di perdere i consensi residuali.
Senza contare coloro che, via via, hanno deciso di abbandonare la corsa visto lo scarso sostegno ottenuto – dall’ex vicepresidente di Trump, Mike Pence, al governatore del New Jersey Chris Christie, passando, per ultimo, in ordine cronologico, all’imprenditore di origini indiane Vivek Ramaswamy – in campo sono rimasti Ron DeSantis, governatore della Florida, e Nikki Haley, già ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite.
Anche i due continuano a risentire della popolarità dell’ingombrante avversario: DeSantis, per esempio, è un trumpiano della prima ora, ha pubblicamente sostenuto in più occasioni l’ex presidente e ne condivide buona parte delle posizioni politiche; al contrario, Haley già dalle primarie del 2016 si era schierata contro Trump e a favore prima di Marco Rubio e poi di Ted Cruz.
In un secondo momento, però, anche lei ha dovuto rivedere la propria strategia, diventando presto uno dei principali volti dell’amministrazione del tycoon. Dal 2018, quindi, con le dimissioni da ambasciatrice e la successiva discesa in campo, Haley ha nuovamente cambiato approccio, presentandosi come la candidata ideale per i repubblicani più moderati, spaventati dalla retorica incendiaria di Trump in ambiti come l’immigrazione e il cambiamento climatico. Insomma: che sia oggetto di critica o di ispirazione, quest’ultimo continua a essere punto di riferimento e cartina di tornasole per l’intero Partito repubblicano.
Questa inossidabile centralità nel dibattito interno al fronte del Grand Old Party ha sicuramente giocato a suo favore. Innanzitutto, Trump si è potuto tenere alla larga da qualsiasi dibattito televisivo tra i candidati, continuando ciononostante a guadagnare voti senza il rischio di incappare in gaffe o esporsi alle critiche. In più di un’occasione, infatti, l’ex presidente è stato il convitato di pietra delle schermaglie tra i vari contendenti che si sono ritrovati addirittura a tesserne le lodi.
Una situazione paradossale, che ha visto aumentare l’appeal di Trump senza che quest’ultimo muovesse un dito, strategia tra l’altro già piuttosto efficace nella campagna del 2016, quando le sue esternazioni eclatanti e spesso oltre il politicamente corretto gli assicuravano le prime pagine di giornali e telegiornali col minimo sforzo. Tant’è che, come detto, Trump si è presentato ai nastri di partenza delle primarie, quando effettivamente gli elettori si sono espressi, come capofila indiscusso.
Così, in Iowa Trump ha ottenuto addirittura il 51% delle preferenze e ben 20 delegati, in linea con i sondaggi della vigilia; inoltre, si è imposto su tutte le 99 contee che compongono lo Stato, mentre nel 2016 si era fermato a 36.
Alle sue spalle, invece, l’abisso. DeSantis, che tra i due principali sfidanti sembrava essere quello maggiormente in difficoltà, si è piazzato al secondo posto con poco più del 21%: per lui, finire terzo, avrebbe probabilmente significato la fine di qualsiasi velleità; quindi, sul gradino più basso è finita Haley, che si è mantenuta sopra il 19%. Quarto il già citato Ramaswamy, anch’egli profondamente influenzato dalla retorica trumpiana, che ha ricevuto meno dell’8% delle preferenze: un risultato che lo ha convinto a rinunciare alla corsa.
Il risultato dell’ex presidente, come detto, dev’essere contestualizzato. Non tanto per ridimensionarlo, perché la scalata di Trump verso la nomination del Partito repubblicano è piuttosto avviata al di là degli ostacoli giudiziari che, comunque, verosimilmente verranno meno a seguito dell’impugnazione da parte del suo team legale.
Quanto, al contrario, per senso di realtà: è vero, l’Iowa è stato travolto da un freddo polare e da tempeste di neve che hanno senz’altro disincentivato molti elettori dal recarsi al voto. Ma i numeri dicono che, considerando come gli iscritti siano intorno ai 750mila, sia la tornata del 2016, con 185mila partecipanti, sia quella del 2012, con 122mila, hanno avuto una maggior affluenza rispetto a quella di quest’anno, che si è fermata a 110mila.
Dati che, soprattutto per la composizione dello Stato, fanno riflettere: l’Iowa è a maggioranza bianca ed è la casa di una nutrita comunità evangelica, una corrente religiosa di fede cristiana, tendenzialmente conservatrice e di destra che negli anni, dall’ascesa di Trump per la prima sfida contro Hillary Clinton in poi, si sono dimostrati particolarmente sensibili alla causa del tycoon e lo hanno sostenuto a grande maggioranza. Dunque, anche per la distanza che ci separa dalla convention conclusiva, abbandonarsi a titoli sensazionalistici sul ritorno dato come certo di Trump alla Casa Bianca non è, almeno per il momento, esatto.
Dall’altro lato, comunque, il successo dell’ex presidente è indiscutibilmente netto, come preventivabile. La base del movimento Make America Great Again, eredità che difficilmente sarà archiviata insieme alla carriera politica di Trump stesso, è il vero punto di forza della sua candidatura. L’incrollabile popolarità che Trump riscuote in questa frangia dell’elettorato repubblicano, che si è radicalizzata ancor di più dopo gli eventi dell’assalto al Campidoglio nei giorni immediatamente antecedenti all’inaugurazione del nuovo presidente Joe Biden, ha pochissimi precedenti nella storia politica statunitense.
Anche al di fuori, comunque, la figura di Trump non è del tutto avversata: anche non militanti e cittadini comuni vedono soddisfatta nell’ex presidente quella insostenibile e irriducibile pulsione a ritirarsi dal mondo, al sicuro nella città sulla collina di cui parlava John Winthrop, delineando il futuro delle colonie americane prima di imbarcarsi da Southampton insieme ai primi coloni della Baia del Massachusetts nel Seicento.
Tentazione forte e storicamente mai sopita, che passa dal monito di George Washington contro le alleanze vincolanti all’isolazionismo dopo la Prima guerra mondiale. E che, oggi, di fronte al sostegno da 44 miliardi di dollari in favore dell’Ucraina contro la Russia – che, a dir la verità, si è bloccato proprio per la spaccatura sempre più evidente all’interno del Congresso –, al caos mediorientale che rischia di detonare in un conflitto senza confini e ai sommovimenti sempre più preoccupanti attorno allo stretto di Formosa, che divide la Cina popolare da Taiwan, torna a essere un punto all’ordine del giorno del dibattito pubblico.
Trump, da parte sua, è un alfiere del self-restraint, ovvero della necessità, per gli Stati Uniti, di dismettere i panni dell’egemone; molto meno lo sono DeSantis e, soprattutto, Haley, che anche per questo difficilmente metteranno in discussione la candidatura del tycoon.
I giochi, probabilmente, si decideranno già prima dell’estate, quando i delegati di Trump saranno sufficienti per reclamare la nomination. Nel frattempo, comunque, non sono impossibili delle sorprese: Haley, più di DeSantis, resta un avversario da sconfiggere per l’ex presidente, visto l’appeal che esercita su alcune fasce dell’elettorato moderato e su parte dell’establishment.
Quel che è certo, è che la vittoria in Iowa, indipendentemente dai futuri esiti delle primarie, è l’ennesima riconferma del marchio evidente che Trump ha impresso sulla quotidianità statunitense: che sia a tutti gli effetti il prossimo sfidante di Biden, così come avvenne nel 2020, oppure no, la politica dovrà fare i conti con un’ampia fetta di trumpiani.
Si badi bene: il processo delle primarie repubblicane è appena iniziato e i delegati del poco popoloso Stato del Midwest, alla convention di metà luglio, quando il candidato sarà ufficializzato, rappresentano meno del 2% del totale. E, ancora, i processi in capo al tycoon newyorchese non sono affatto svaniti nel nulla, né lo è la doppia decisione di escluderlo dalla corsa alla nomination da parte di altri due Stati, Colorado e Maine.