L’accordo sulla Siria, trovato lo scorso 14 settembre a Ginevra dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e il segretario di stato americano John Kerry, non ha ancora fatto in tempo a passare alla fase esecutiva che già traballa.

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O almeno così sembra di capire dalle parole pronunciate solo domenica scorsa dallo stesso Lavrov, durante un’intervista televisiva su Perviy Kanal. «I nostri partner americani stanno cercando di ricattarci: se la Russia non appoggia la risoluzione ai sensi del capitolo 7 nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, non collaboreremo allo smantellamento dell’arsenale chimico siriano. Questo va contro tutto ciò su cui io e Kerry ci siamo messi d’accordo», ha detto Lavrov senza mezzi termini. Il capitolo 7 dello statuo Onu è quello che prevede l’uso della forza quale deterrente contro le minacce alla pace, ed è la norma dalla quale la Russia vuole tenersi lontana ad ogni costo in cambio del proprio voto nel Consiglio di sicurezza.
Le parole di Lavrov dimostrano ancora di più, se ce n’era bisogno, quanto l’accordo Russia-Usa sia una creatura nata zoppa. Su questo punto si sono espressi nei giorni scorsi molti commentatori occidentali. È stato fatto notare lo spirito velleitario dell’accordo, sottolineando l’immenso costo delle operazioni di distruzione e le difficoltà che gli ispettori troverebbero sul campo. Senza contare che tutto si basa sulla leale collaborazione del regime di Assad, tutt’altro che scontata. Scetticismo, insomma.
In Russia, però, le reazioni sono state diverse. E non mi riferisco solo alla stampa allineata col Cremlino che, comprensibilmente, ha parlato di un grande successo della diplomazia di Putin-Lavrov, ma ai commenti degli osservatori politici, che hanno notato come si sia trattato di fatto di una «vittoria» tutta russa. Yevgeny Satanovsky, capo del Middle East Institute, un think tank sulle questioni mediorientali, ha detto al Moscow Times che «gli approcci della Russia e degli Usa nell’attuazione dell’accordo sono molto diversi e sono mossi da diversi obiettivi», mentre Vyacheslav Nikonov, analista politico e membro della Duma si è detto sicuro – prima ancora delle parole di Lavrov – di come sia «impossibile che gli Usa accettino fino in fondo il piano proposto e insisteranno per un intervento militare».
Resta da notare che il risultato più grosso portato a casa da Putin-Lavrov non è certo l’aver evitato (o ritardato) l’attacco americano alla Siria. Per la prima volta dalla dissoluzione dell’Urss, Mosca torna ad avere un ruolo propositivo e attivo sullo scacchiere mondiale. Se fino ieri la Russia si era limitata a opporre il veto in sede Onu, in questi giorni ricopre il ruolo di attore mondiale allo stesso livello degli Usa, spazzando via in un colpo anche le velleità inglesi e francesi. In questo senso l’accordo di Ginevra è una «vittoria», ed è anche una moneta che Putin sa come spendere bene in patria per rinforzare un consenso che nel suo terzo mandato non si mostra più così monolitico. E poi c’è stata la lettera inviata da Putin al New York Times, che è piaciuta moltissimo ai russi, ma che ha fatto innervosire molti americani (più di 4mila commenti sulla pagina web del quotidiano). Il tocco finale sull’«eccezionalità americana» è stato come uno schiaffo in faccia a ognuno di loro. Forse è proprio questa la dimostrazione di quello che ha notato Luca Caracciolo nel suo «Punto» su Limes, e cioè che «la sostanza del protocollo di Ginevra non è tecnico-militare, è politica». Ma non nel senso, aggiungerei, di trovare una soluzione politica alla crisi Siriana, bensì (per lo meno da parte russa) in quello di dare un segnale chiaro ai partner internazionali, approfittando di un momento di debolezza di Obama.
Intanto Lavrov lascia ai 140 caratteri di un tweet la sintesi del proprio pensiero: «I Paesi occidentali vogliono mostrare la loro superiorità, mentre quello che vogliamo noi è risolvere il problema delle armi chimiche in Siria».
L’accordo sulla Siria, trovato lo scorso 14 settembre a Ginevra dal ministro degli esteri russo Sergej Lavrov e il segretario di stato americano John Kerry, non ha ancora fatto in tempo a passare alla fase esecutiva che già traballa.