“Il centravanti e la Mecca”: libro inchiesta sul rapporto tra calcio e mondo islamico
Calcio, Islam e petroldollari. Non solo i Mondiali in Qatar ma anche i talebani, i jihadisti, gli sceicchi arabi, il passato calcistico di Erdogan e gli stadi iraniani proibiti per le donne... Pubblichiamo un estratto del libro appena uscito "Il centravanti e la Mecca", edizioni Paesi.
Calcio, Islam e petroldollari. Non solo i Mondiali in Qatar ma anche i talebani, i jihadisti, gli sceicchi arabi, il passato calcistico di Erdogan e gli stadi iraniani proibiti per le donne… Pubblichiamo un estratto del libro appena uscito “Il centravanti e la Mecca”, edizioni Paesi.
Sandjar Ahmadi lo dovettero evacuare con la forza all’interno di una camionetta della polizia, per evitare che la folla travolgesse il nuovo idolo della nazione. L’attaccante aveva già segnato contro il Pakistan in un’amichevole giocata il 20 agosto del 2013. Ma soprattutto si era ripetuto – ironia della storia – l’11 settembre, a Katmandu, contro l’India, consentendo alla nazionale di calcio dell’Afghanistan di conquistare il suo primo trofeo internazionale, la Saff Cup, la coppa della federazione calcistica dell’Asia meridionale. Il giorno successivo decine di migliaia di persone invasero lo Stadio Olimpico di Kabul per per festeggiare i loro eroi. (..)
Fu un rito apotropaico, per esorcizzare i fantasmi, e non tanto perché solo due anni prima l’India aveva spazzato via l’Afghanistan nella finale della Saff Cup con un 4 a 0 senza appello. I fantasmi erano di altra natura. Molti afghani non osavano avvicinarsi allo stadio dopo il tramonto, perché erano convinti che a quell’ora si potessero destare le anime dei morti: per ben cinque anni, dal 1996 al 2011, sotto il primo regime totalitario dei talebani, lo stadio Ghazi di Kabul era il teatro designato delle esecuzioni capitali. (….)
Negli anni del loro primo governo, i talebani non volevano né strumentalizzare il calcio né utilizzare lo stadio per nascondere i loro crimini. Al contrario, volevano rivendicarli, sostituendo un gioco considerato impuro con una manifestazione esibita della loro purezza, la punizione pubblica di chi non rispettava la sacralità delle norme. Non tutta la galassia del fondamentalismo islamico considera il calcio haram, proibito. Ma è indubbio che per molti gruppi il pallone sia un formidabile concorrente, in grado di allontanare i loro adepti dalla prospettiva del jihad. Quando conquistarono buona parte della Somalia, gli Al Shabaab bandirono il football dalla spiaggia di Mogadiscio e requisirono lo stadio, trasformandolo in una base operativa. Poi dovettero trovare un compromesso, per non alienarsi totalmente le simpatie della popolazione, e virarono su una forma halal, «lecita», di gioco: banditi i calzoni corti, fischio finale fissato inesorabilmente quindici minuti prima dell’inizio della preghiera. Concesse, invece, le divise occidentali (sembra che tirasse parecchio quella dell’Arsenal, una passione condivisa da Osama bin Laden).
Non fu facile tornare alla normalità per un luogo che aveva visto così tanti orrori. Nel 2011 gli Stati Uniti si sforzarono di migliorare la loro immagine presso l’opinione pubblica afghana e logicamente si servirono del soft power per eccellenza, il calcio. L’esercito americano affidò alla GreenFields, un’azienda specializzata nell’installazione di erba sintetica all’interno degli impianti sportivi, il compito di sostituire il terreno del Ghazi Stadium, in modo che potesse essere utilizzato con maggiore frequenza, anche da squadre femminili. (..)
Probabilmente non c’è antitesi maggiore del regime talebano di una donna che gioca a pallone. Il nemico giurato del fondamentalismo si chiama Khalida Popal, vera e propria pioniera del calcio femminile afghano, disciplina che praticava di nascosto anche sotto il primo regime dei barbuti. La squadra nazionale fu creata nel 2007 e giocò il suo primo match internazionale nel 2010 contro il Nepal. Ma l’Afghanistan non è mai stato un Paese per donne, e nel 2011 Khalida, minacciata di morte per il suo impegno, è dovuta fuggire di nascosto in India. Da lì, è riuscita persino a organizzare una partita della sua nazionale, prima di trovare rifugio in un centro per richiedenti asilo in Norvegia. Alla fine si è trasferita in Danimarca, dove tuttora risiede. Del resto, che il calcio non fosse affare per donne in Afghanistan lo pensavano e lo pensano in tanti. «Il mio problema non erano solo i talebani col fucile, ma anche i talebani con il vestito e la cravatta, persone con la mentalità dei talebani, contrari al fatto che le donne potessero esprimere la loro voce», raccontò al Guardian Khalida. Le donne che praticavano il calcio erano bollate come prostitute che disonoravano la loro famiglia. (..)
Dopo il ritorno dei talebani, l’esilio è l’unica prospettiva per chiunque abbia l’Occidente come modello. Non è ancora riuscito a lasciare l’Afghanistan Murtaza Ahmadi, il bambino che a sette anni, nel 2016, si guadagnò notorietà mondiale con un video divenuto virale sui social. Utilizzando un sacchetto di plastica Murtaza aveva creato una maglietta dell’Argentina su cui aveva scritto nome e numero di Lionel Messi. L’eco del gesto era stata talmente ampia da raggiungere il fuoriclasse del Barcellona che aveva inviato al bambino due maglie autografate e undici mesi dopo lo aveva addirittura incontrato di persona, in Qatar. Ma la fama ha portato a Murtaza solo problemi. I talebani l’hanno messo nel mirino, e sono cominciate a circolare voci sul fatto che avesse ricevuto da Messi molti soldi. I genitori hanno smesso di mandarlo a scuola e sono stati costretti a cambiare casa più volte. (…)
Vent’anni di conquiste civili sono state congelate, compresi gli spazi conquistati attraverso lo sport. Nel 2015 una famosa cantante pop afghana, Aryana Sayeed, si esibì allo stadio rompendo vari tabù: non portava il velo e indossava una maglia da calciatrice. Nell’agosto 2021 anche lei ha dovuto lasciare il Paese, rifugiandosi prima in Qatar poi in Turchia infine negli Stati Uniti. Se le partite di calcio sono il luogo dell’innocenza, come sosteneva Albert Camus, l’Afghanistan di oggi è il Paese dell’innocenza negata. Il sogno di Murtaza e di Khalida è ben lontano dall’essere realizzato.
Sandjar Ahmadi lo dovettero evacuare con la forza all’interno di una camionetta della polizia, per evitare che la folla travolgesse il nuovo idolo della nazione. L’attaccante aveva già segnato contro il Pakistan in un’amichevole giocata il 20 agosto del 2013. Ma soprattutto si era ripetuto – ironia della storia – l’11 settembre, a Katmandu, contro l’India, consentendo alla nazionale di calcio dell’Afghanistan di conquistare il suo primo trofeo internazionale, la Saff Cup, la coppa della federazione calcistica dell’Asia meridionale. Il giorno successivo decine di migliaia di persone invasero lo Stadio Olimpico di Kabul per per festeggiare i loro eroi. (..)
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