Dallo Yemen al Libano, le presunte mire egemoniche di Teheran sono additate da monarchi sunniti, Israele e Usa come la minaccia numero uno per la stabilità regionale. La religione però non c’entra. E lo spauracchio della mezzaluna a influenza iraniana nasconde altri timori
Quando re Abdullah II di Giordania parlò per la prima volta del “crescente sciita” erano i primi giorni di dicembre del 2004. Appariva ancora incerto quale sarebbe stato il futuro politico dell’Iraq post-invasione americana, poco chiaro se e quale peso avrebbero avuto le divisioni confessionali all’interno del Paese. Si aspettavano le elezioni, ma il re – ai microfoni dell’emittente americana Msnbc – tracciava già sulla mappa del Medio Oriente una “mezzaluna” a influenza iraniana, percepita come una minaccia contro la sicurezza regionale. Prospettava, come “scenario peggiore”, l’ipotesi di una Baghdad “a guida sciita”, “con un rapporto speciale” con Teheran. Invitava a guardare al “nuovo crescente” idealmente posto ad unire l’Iran al Libano (con Hezbollah) – passando per l’Iraq e la Siria – che sarebbe stato a suo avviso “molto destabilizzante per i paesi del Golfo e per l’intera regione”.
A gennaio 2016, una fonte vicina al principe saudita Mohammad bin Salman (colui che oggi sembra essere il vero artefice dell’impasse libanese), paventava all’Economist addirittura l’esistenza di una “luna piena sciita”, estesa fino allo Yemen, che sarebbe espressione delle mire egemoniche dell’Iran. La galassia sciita iraniana nella narrazione delle monarchie arabe a maggioranza sunnita, ma anche in quella israeliana e statunitense, è diventata il nemico numero uno alla sicurezza regionale.
Perché la religione non c’entra
La questione, però, ha una natura prettamente politica e la polarizzazione settaria sfrutta la religione come elemento dirimente, utile a giustificare una lotta per la distribuzione del potere in Medioriente.
Nella rappresentazione mediatica, una guerra tra Arabia Saudita e Iran viene presentata proprio in queste settimane come sempre più “vicina” e il “pericolo” del “crescente sciita” è tornato preponderante nel discorso collettivo. In particolare, una catena di eventi hanno dato un’accelerata forte alla storica acrimonia tra Riyad e Teheran che fonda le sue radici politiche nella nascita della Repubblica islamica dell’Iran dopo la rivoluzione del 1979 (e non necessariamente in un conflitto spesso raccontato come “millenario” tra sunniti e sciiti).
Tra il 4 novembre e il 5 novembre 2017, infatti:
1) il primo ministro libanese Saad Hariri ha annunciato le sue dimissioni, mentre si trovava in Arabia Saudita;
2) il principe ereditario Mohammad bin Salman ha fatto arrestare più di 200 persone per corruzione;
3) un missile proveniente dallo Yemen è stato intercettato vicino all’aeroporto di Riad: l’Arabia Saudita ha addossato le responsabilità all’Iran, ma Teheran ha negato ogni coinvolgimento. Javad Zarif, ministro degli Esteri del governo iraniano guidato da Hassan Rouhani e noto per aver negoziato lo storico accordo sul nucleare tra Teheran e le grandi potenze occidentali (Unione europea e il gruppo 5+1), ha twittato: “L’Arabia Saudita è impegnata in guerre di aggressione, bullismo regionale, comportamento destabilizzante e provocazioni rischiose, ma accusa l’Iran per le conseguenze”.
Pochi giorni dopo, il 16 novembre, è intervenuto ufficialmente nella grande contesa anche Israele, per bocca del capo di stato maggiore, il generale Gadi Eizenkot, al giornale online saudita Elaph. Secondo la visione delllo Stato ebraico, che si sta avvicinando sempre di più all’Arabia Saudita per cementare un fronte anti-Teheran, “l’Iran progetta di controllare il Medio Oriente con due ‘mezzelune sciite’: la prima dall’Iran, attraverso l’Iraq, fino in Siria e in Libano, e la seconda dal Bahrein attraverso lo Yemen fino al mar Rosso. Su questa faccenda noi e il regno dell’Arabia Saudita, che non è mai stato nostro nemico e con cui non abbiamo mai combattuto, concordiamo completamente”.
I limiti della narrazione sulla mezzaluna sciita
La retorica del crescente sciita, che ha sfruttato politicamente le divisioni confessionali per diluire l’impatto dell’invasione dell’Iraq nel 2003, costruisce un “pericoloso” Iran al fine di giustificare ufficialmente un problema di sicurezza. Prima gli sciiti iracheni, poi quelli del Bahrein e dello Yemen sull’onda lunga delle primavere arabe del 2011, hanno in realtà esposto questo tipo di lettura ad ulteriori complessità: le istanze delle comunità (minoranze o maggioranze) locali si sono sviluppate come rivendicazione e come tentativo di riconoscimento politico e non religioso in sé, che ha poi trovato nell’Iran una forza di sostegno galvanizzatrice. Ma, ad esempio, per l’Arabia Saudita in Yemen è l’Iran che avrebbe fomentato la ribellione del gruppo Houthi (sciiti zaiditi) contro il governo centrale di Sanaa, anche se la religione alle origini del conflitto c’entra poco.
Il terreno siriano ha visto, invece, trasformare una rivolta popolare contro il regime di Bashar al-Assad in una guerra per procura, una partita più ampia: con l’Iran che è sceso in campo militarmente dalla parte di Assad, insieme a Hezbollah, alleati – nella retorica ufficiale della Repubblica islamica – nel cosiddetto “asse di resistenza” contro l’ingerenza statunitense in Medioriente e contro l’Isis negli ultimi anni, e Riad che si è posizionata sul fronte opposto, finanziando gruppi armati e ribelli estremisti. In Siria come in Yemen, a pagare le spese di conflitti devastanti sono stati i civili, schiacciati in un scontro per la distribuzione del potere nella regione che potrebbe spostarsi oggi su un altro focolaio.
E dopo il 2015, ovvero dopo che Teheran è tornata sulla piazza internazionale anche economicamente con l’Iran Deal e stava lentamente consumando il disgelo con l’Occidente, l’offensiva diplomatica saudita con il tandem Usa-Israele è ritornata (non a caso) all’attacco contro il “crescente sciita”. Al netto del coinvolgimento iraniano nei contesti sopra citati, nel Risiko geopolitico si rischia di ignorare o sottovalutare, invece, tre fattori cruciali per comprendere gli equilibri mediorientali:
1) la dimensione politica interna dei singoli Paesi e le istanze locali che non possono essere manovrate tout-court da attori esterni;
2) il cambio di registro nella politica estera di Teheran negli ultimi quattro anni, più aperto al dialogo e assolutamente poco incline a fare leva sull’elemento religioso;
3) i timori economici e strategici di Arabia Saudita, Usa e Israele rispetto a un Iran non più isolato.
@transit_star
Dallo Yemen al Libano, le presunte mire egemoniche di Teheran sono additate da monarchi sunniti, Israele e Usa come la minaccia numero uno per la stabilità regionale. La religione però non c’entra. E lo spauracchio della mezzaluna a influenza iraniana nasconde altri timori