I jihadisti giurano fedeltà ad al-Baghdadi e si riuniscono sotto lo Stato islamico del Sinai.
Dalla riannessione del Sinai all’Egitto nel 1982, non sono mai state realizzate politiche di sviluppo nel nord della penisola, in gran parte tagliata fuori anche dall’approvvigionamento di acqua potabile ed elettricità. Da decenni gli abitanti del Nord Sinai subiscono da parte dello Stato egiziano politiche discriminatorie e repressive, origine del malcontento popolare su cui i movimenti jihadisti hanno fatto leva fin dagli anni Novanta.
Dalla guerra dello Yom Kippur, il Sinai è terreno di gioco sia per le relazioni tra Egitto e Israele che per la politica interna egiziana. Il Presidente Abdel Fattah al Sisi ha fondato la sua credibilità sulla minaccia terroristica nel Sinai, da quando nel maggio 2013 (in veste di ministro della Difesa) è giunto alla ribalta per la missione di salvataggio dei 7 poliziotti rapiti nel Sinai.
Da qui la sua ascesa è stata inarrestabile, da “uomo della patria”, deponendo l’ex presidente dei Fratelli musulmani Mohamed Morsi nel luglio 2013, a Presidente nel maggio 2014. L’ultima guerra a Gaza ha ridato all’Egitto di al Sisi il ruolo di mediatore nei negoziati per il cessate il fuoco tenuti al Cairo, restaurando non solo i rapporti con Israele ma anche riconquistando la fiducia degli Americani, soprattutto dopo aver reso pubblica a novembre la decisione di realizzare la “zona cuscinetto” (500 mt per 13 km, ora 1 km per 13 km) sul confine egiziano con Gaza, da lungo tempo richiesta da Israele.
Ai 10.000 sfollati di Rafah, riparati in tende e in baraccopoli vicino al capoluogo al Arish, si devono aggiungere coloro scappati nel corso dell’offensiva militare iniziata a luglio 2013 e tuttora in corso. Secondo fonti locali, tra Rafah e Sheikh Zuweid non si vedono che rovine di villaggi beduini, ora utilizzati dai militanti jihadisti come basi strategiche.
Il tessuto tribale beduino si è disgregato ulteriormente dopo la rivoluzione del 2011 con il cambio degli equilibri clientelari Stato-tribù. I capi tribali hanno perso il potere sul territorio e le famiglie più deboli si son viste sfuggire di mano tanti membri che, allettati dalle armi e dal potere, hanno visto più risolutezza nei jihadisti rispetto ai clan più influenti o allo Stato.
È in questo contesto che il gruppo jihadista Ansar al Beit al-Maqdis (ABM) ha potuto formarsi ed evolversi. Inizialmente concepita come organizzazione “ombrello” di tutti i gruppi jihadisti presenti nel Nord Sinai, nel 2011 per minare le relazioni Egitto-Israele, e nel 2013 in seguito all’Operazione Sinai, ABM ha spostato il mirino dei suoi attacchi quasi esclusivamente contro lo Stato egiziano e il 14 novembre 2014 il gruppo ha dichiarato la sua fedeltà a Abu Bakr al-Baghdadi e allo Stato islamico (Is), cambiando il nome in Wilayat Sina, lo Stato del Sinai.
L’obiettivo ora dichiarato dai jihadisti è estendere il Califfato a tutto il Paese, tenendo sotto tiro le ambasciate dei paesi della coalizione guidata dagli Usa in Siria e Iraq. Se l’alleanza con Is da una parte legittima le forze armate egiziane a intervenire in maniera ancora più pesante nel Nord Sinai, dall’altra garantisce al gruppo notevoli finanziamenti, training e sostegno nel diffondere il brand. Questo significa anche la possibilità di aumentare le reclute, non dall’estero (sebbene la Derna libica non sia poi così lontana), ma in Egitto, dove molti giovani disillusi vedono l’Is come alternativa alla repressione che vivono nel proprio Paese.
Le cellule attive più consistenti rimangono principalmente locali. Tremila, secondo le fonti di sicurezza egiziane. Qualche dozzina, secondo gli esperti dell’area.
Anche il piano operativo è per lo più locale ed è proprio in quest’ambito che s’intravedono nuove evoluzioni. Il 5 gennaio, Wilayat Sina ha distribuito compensi ad alcuni civili le cui case sono state distrutte dalla creazione della zona cuscinetto, mostrando come lo scontro con lo Stato egiziano, oltre che con le armi, si sia esteso anche alla propaganda e sul piano assistenziale.
La risposta egiziana rimane improntata alla lotta al terrorismo, la stessa per cui al Sisi è stato lodato dalle cancellerie occidentali ma che nei fatti è risultata inefficace e controproduttiva. Secondo fonti vicine all’intelligence militare, al Sisi avrebbe mandato in pensione quelle figure che si occupavano di contro-terrorismo nel Sinai da decenni e, durante le operazioni in una zona così desertica e montagnosa vengono solo raramente impiegate forze speciali. La “lotta al terrorismo” è portata avanti dalla fanteria, ovvero quei ragazzi di leva nel Nord Sinai, terrorizzati e poco addestrati, che aprono indiscriminatamente il fuoco contro qualunque cosa si muova, sapendo che – come riferito – “se uccidi civili nel Sinai non è un problema per i militari”. Del resto, finché la “minaccia terrorista” continua anche la legittimazione politica dell’attuale governo rimane intaccata.
I jihadisti giurano fedeltà ad al-Baghdadi e si riuniscono sotto lo Stato islamico del Sinai.