Galeotto fu l’annuncio: il 10 ottobre 1935 un giovane apprendista chiamato Domon Ken rispose alla richiesta di un tecnico fotografo dello studio Nippon Kobo di Ginza, fondato da Natori Yōnosuke, che stava diffondendo per la prima volta in Giappone i concetti di editing e reporting, nonché un nuovo sistema di produzione basato sulla collaborazione tra fotografo e grafic designer, sotto la supervisione di un art director. In una parola, le fondamenta del moderno foto-giornalismo.
Se Domon Ken (1909-1990) è diventato l’Émile Zola del Giappone novecentesco, il cantore realista delle sue vicende, tanto che il Museo dell’Ara Pacis di Roma ha deciso di dedicargli una superba mostra monografica – 27 maggio/18 settembre – il merito iniziale è di quel connubio, che produsse i reportage della rivista Nippon, scritta appositamente in lingua straniera, con la quale l’impero nipponico cercò di farsi conoscere dal resto del mondo, settant’anni dopo le riforme dell’era Meji.
Poetica del quotidiano o propaganda di Stato, tradizioni secolari ed ambizioni egemoniche: dalla pesca all’ayu agli esercizi ginnici dei soldati, dalla presentazione dei bambini al tempio alle crocerossine che si preparano per l’invio al fronte, dal mercato del pesce di Tokyo al corteo per la vittoria nella battaglia di Shanghai. Impugnando la sua Leica modello C, Domon Ken raggiunse la fama in un Giappone la cui deriva nazionalistica appariva sempre più inarrestabile.
Con la sconfitta nella seconda guerra mondiale l’ideologia militarista, un impasto di mito imperiale e shintoismo di Stato, andò in frantumi. Così Domon, chiusa la parentesi di disimpegno dalla vita pubblica coincisa con il conflitto bellico – e trascorsa a raccontare la cultura classica e quella popolare, dai templi buddhisti al teatro di burattini Bunraku – divenne il protagonista di quel movimento realista in grado di esprimere, attraverso il linguaggio fotografico, la tragicità di un Paese che provava a risollevarsi, dopo l’atomica, le umiliazioni, l’occupazione alleata.
Ken rappresentò per il Giappone quello che Cartier Bresson, Brassai e Doisneau furono per la Francia: Domon ebbe l’occasione di confrontarsi con questi autori in occasione di una grande mostra, organizzata nel 1951 al Museo Nazionale d’Arte Moderna di Tokyo. “Un’istantanea assolutamente non drammatica”: questa la fotografia realista secondo Ken, che enfatizzò due concetti alla base del proprio lavoro: jijitsu (realtà) e shinjitsu (verità). Fu il realismo a raccontare al mondo il Giappone del secondo Dopoguerra, tranche de vie che mostrarono speranze e miserie, la progressiva occidentalizzazione e gli stenti sociali: il quartiere di piacere “Hato no machi”, a Tokyo, e gli sciuscià, come in un film di De Sica.
Del resto, il neorealismo italiano è il parallelo più immediato di fronte agli scatti di Ken. Come non pensare a Roberto Rossellini davanti ai “Bambini di Chikuho” e a tutti i ritratti dell’infanzia misera ed innocente? Bambini orfani, bambini a scuola senza merenda, bambini che fanno la pipì per strada, bambini che giocano con gli ombrelli (forse in questa ossessione c’è anche un dato biografico: nel 1946 Domon perse per un incidente la sua secondogenita).
All’interno della mostra, realizzata in collaborazione con il Ken Domon Museum of Photography di Sakata, con la partecipazione di Nikon e Fujifilm, ci sono circa 150 fotografie, in bianco e nero e a colori, realizzate tra gli anni Venti e gli anni Settanta del ‘900, che raccontano il percorso di ricerca compiuto da Ken in direzione del realismo sociale. Una strada culminata con la raccolta “Hiroshima” (1958), considerata dal premio Nobel per la Letteratura Oe Kenzaburo la prima grande opera moderna del Giappone, che affrontò il tema dell’atomica parlando non dei morti, ma dei vivi, dei sopravvissuti, delle loro cicatrici, fisiche e morali, mostrate in tutta la loro crudezza (le immagini furono così crude che l’opera non fu immune da critiche).
La mostra, promossa da Roma Capitale, fa parte di un programma di eventi destinati a celebrare il 150° anniversario del primo Trattato di Amicizia e Commercio tra Italia e Giappone, firmato il 25 agosto 1866. Vale la pena seguire il poliedrico percorso espositivo, che spazia dalla dimensione psicologica dei ritratti – volti di personaggi famosi del mondo dell’arte, della letteratura, della scienza, da Yukio Mishima a Toshiro Mifune, da Taro Okamoto a Yusaku Kamekura – a quella mistica dei templi antichi, fusione di natura e cultura intrisa di esotismo. Non si fatica a capire perché Domon Ken sia considerato uno dei protagonisti di quel rinnovamento culturale che fece uscire il Giappone dalla disfatta della guerra, creando un’estetica a cui ancora oggi tutto il mondo fa riferimento.
27/05 – 18/09/2016
Domon Ken. Il maestro del realismo giapponese
Tutti i giorni 9.30-19.30
www.arapacis.it
Photogallery
Galeotto fu l’annuncio: il 10 ottobre 1935 un giovane apprendista chiamato Domon Ken rispose alla richiesta di un tecnico fotografo dello studio Nippon Kobo di Ginza, fondato da Natori Yōnosuke, che stava diffondendo per la prima volta in Giappone i concetti di editing e reporting, nonché un nuovo sistema di produzione basato sulla collaborazione tra fotografo e grafic designer, sotto la supervisione di un art director. In una parola, le fondamenta del moderno foto-giornalismo.