Il Paese di tutti e di nessuno
Un frastagliato campo di battaglia è stato ed è ancora conteso dagli interessi e dalle divergenze di attori regionali e internazionali.
Un frastagliato campo di battaglia è stato ed è ancora conteso dagli interessi e dalle divergenze di attori regionali e internazionali.
La Libia non è la Siria ma è comunque uno dei tanti campi di battaglia per le potenze regionali, per gli Usa e in misura minore per la Russia. Molte cose potrebbero cambiare sotto l’amministrazione Trump ma è bene avere il quadro di dove siamo ora.
Non bisogna dimenticare che la guerra contro Gheddafi del 2011, spesso ricordata esclusivamente come un intervento Nato, coinvolse invece anche la Lega Araba e in particolare il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti che suggellarono proprio in quell’occasione il loro nuovo ruolo politico e militare a livello regionale. Gli alleati libici dei due Paesi del Golfo nel 2011 coincidevano con la grande frattura all’interno del campo anti-Gheddafi, quella tra i fautori di un certo grado di continuità istituzionale con il vecchio regime in nome della necessità di evitare la ripetizione del caos iracheno, da un lato, e dall’altro lato i sostenitori di un taglio netto col passato, spesso ma non sempre islamisti e oppositori irriducibili del vecchio regime. Gli Emirati sostenevano politicamente e militarmente il primo gruppo in cui le figure di spicco erano Mahmoud Jibril e Aref Al Nayed mentre il Qatar sosteneva soprattutto gli islamisti del secondo gruppo, prevalentemente attraverso l’ex leader del Libyan Islamic Fighting Group, Abdelhakim Belhadj, che nel frattempo si era convertito all’Islam politico.
I due gruppi mantennero a lungo una sorta di patto di non aggressione che implicava anche un controllo condiviso della capitale Tripoli soprattutto tra le milizie di Zintan, in buoni rapporti con gli Emirati, e quelle di Misurata, vicine al fronte degli islamisti e degli oppositori irriducibili sostenuti da Qatar e, in misura crescente, anche dalla Turchia.
Con il golpe egiziano dell’estate 2013, cambiano gli assetti e gli islamisti si arroccano nel General National Congress di Tripoli. Contemporaneamente, dal febbraio 2014 c’è l’ascesa del generale antislamista Khalifa Haftar che nel maggio 2014 lancia l’operazione ‘Dignità’ a Bengasi per sradicare terroristi e islamisti.
Haftar diviene presto l’uomo sia degli egiziani (e dei loro padrini emiratini) che di alcune tribù chiave della Cirenaica tra cui soprattutto gli Awaghir e gli Obeidat. Il sostegno egiziano ed emiratino al suo Esercito Nazionale Libico (LNA in inglese) è sia politico che militare. Politicamente, UAE ed Egitto premono perché il parlamento e il governo di Tobruk siano riconosciuti come legittimi e per allentare l’embargo Onu sulle armi. Militarmente, forniscono consegne massicce di armi e realizzano raid aerei già dal settembre 2014. Secondo il think tank britannico IHS, c’è ora anche una base aerea emiratina non lontano da Marj, il quartiere generale di Haftar.
Per l’Egitto, il sostegno a Haftar porta alcuni notevoli vantaggi. In primo luogo, la lotta agli islamisti e l’eliminazione di un possibile “santuario” per la Fratellanza Mussulmana egiziana. In secondo luogo, la creazione di una zona cuscinetto che si estenda per diverse centinaia di km dal confine libico-egiziano e che protegga il gigante arabo dall’instabilità e dall’anarchia del resto della Libia. Infine, potenziali ma ancora non goduti, vantaggi economici, soprattutto le riserve della Banca Centrale Libica e la possibilità di acquistare petrolio a basso costo.
Il ruolo egiziano è molto diverso da quello algerino o tunisino. I due vicini occidentali della Libia hanno una linea diametralmente opposta a quella di al Sisi: contrari a ogni escalation militare per paura di fomentare l’instabilità, Algeri e Tunisi non hanno clientes in Libia e appoggiano i tentativi di dialogo pur non riuscendo mai a giocare un ruolo importante, se non d’interdizione agli egiziani sia nella Lega Araba che nell’Unione Africana.
L’Egitto per Haftar non è solo un sostenitore ma anche un modello e una base: è al regime di al Sisi che si ispira il generale (promosso Feldmaresciallo proprio come fu per al Sisi) nella sua lotta senza quartiere agli islamisti ed è al Cairo che vive la maggior parte della classe dirigente a lui fedele.
A queste alleanze “regionali”, il neo-Feldmaresciallo ha aggiunto anche due tasselli “internazionali” di non poco conto. A partire dall’inverno 2015, piccoli gruppi di forze speciali francesi hanno cominciato a fornire un sostegno militare non secondario all’LNA che non a caso ha fatto passi importanti nella conquista di Bengasi dove era rimasto bloccato per un anno e mezzo. Nel luglio del 2016, tre soldati francesi sono stati uccisi nell’abbattimento di un elicottero non lontano dalla capitale della Cirenaica e l’amministrazione Hollande ha avuto poche remore ad ammettere pubblicamente la presenza delle sue forze a Bengasi. Tuttavia, la Francia non accompagna questo sostegno militare con un vero sostegno politico a causa delle lotte intestine tra la Difesa (che sostiene Haftar) e il Quai d’Orsay che sostiene a spada tratta l’accordo Onu e il governo Serraj.
Più recentemente, il Feldmaresciallo che nutre sempre più consistenti appetiti politici ha esteso notevolmente i suoi rapporti con la Russia di Putin. Sono frequenti i viaggi a Mosca e Putin ha assegnato il dossier libico allo stesso Bogdanov che si occupò di preparare diplomaticamente l’escalation in Siria. Mentre sostiene in Consiglio di Sicurezza l’accordo politico negoziato dall’Onu che ha portato alla nascita del governo di Faiez Serraj a Tripoli, la Russia sottolinea sempre l’importanza del parlamento di Tobruk (vicino ad Heftar) nello schema dell’accordo stesso e fornisce consigli militari e politici rimasti per il momento sottotraccia.
Sull’altro versante, il sostegno qatarino agli islamisti libici è scemato con il cambio della guardia a Doha che invece, insieme ad Ankara, si è fatta sostenitrice con i suoi clientes libici dell’accordo Onu. Le milizie di Misurata che sono l’architrave militare del nuovo governo di Serraj possono comunque contare su vasti arsenali accumulati sia nel 2011 che negli anni successivi.
Dall’estate 2014, Misurata era la componente fondamentale della coalizione Alba Libica che si contrapponeva all’operazione Dignità di Haftar e che includeva anche gruppi più o meno islamisti e milizie locali della Tripolitania. Alba Libica aveva preso il controllo della capitale a settembre 2014 ma sei mesi dopo un gruppo di capi-milizia e uomini d’affari di Misurata aveva deciso di spaccare l’alleanza per partecipare ai colloqui di pace Onu. Gradualmente, la città costiera è divenuta il maggiore interlocutore per americani, britannici e italiani sia per la lotta all’Isis che per il sostegno al governo Serraj.
Gli italiani sono grandi sostenitori degli sforzi politici unitari ma hanno anche portato avanti tentativi di mediazione tra Haftar e il governo di Tripoli, soprattutto la scorsa estate. Da ottobre, hanno realizzato un ospedale da campo a Misurata, protetto da alcune decine di soldati italiani. L’asse sulla Libia con gli Usa è stato molto importante, tanto è vero che le riunioni internazionali sulla Libia venivano sempre co-convocate da Kerry e Gentiloni.
I britannici hanno tenuto una linea simile pur mantenendo aperto il canale con l’est della Libia. Forze speciali britanniche sono state cruciali nell’avanzata delle forze di Misurata contro l’Isis a Sirte.
Infine gli Usa. Per Obama, la Libia era soprattutto lotta all’Isis ma anche sforzi di stabilizzazione. L’inviato speciale del Dipartimento di Stato, Jonathan Winer, era molto attivo non solo nel dialogo politico ma anche in trattative dirette con Haftar per fargli accettare l’accordo Onu – senza risultati. Il ruolo americano sotto Obama è stato importante soprattutto sul versante economico dove al Consiglio di Sicurezza gli Usa hanno fatto approvare a tambur battente risoluzioni che vietavano la vendita di petrolio da parte di soggetti che non fossero il governo di Tripoli. Nelle sanzioni individuali contro gli oppositori dell’accordo Onu, gli americani si sono allineati agli europei, punendo anche Aghila Saleh che è il presidente del parlamento di Tobruk e braccio politico di Haftar.
L’arrivo di Trump potrebbe comportare grandi cambiamenti in questo quadro. Il governo Serraj aveva nell’amministrazione Obama, in tandem con i governi italiano e britannico, i suoi maggiori puntelli. Basterebbe una posizione americana meno entusiasta verso Tripoli per cambiare gli equilibri, facendo mancare all’attuale Primo Ministro degli alleati che lo aiutavano finanche a mediare con pezzi di burocrazia e di poteri economici ostili, come il governatore della Banca Centrale Sadiq Al Kebir che nel primo anno di vita del governo non ha sborsato una lira per il Primo Ministro.
Difficile che Trump sia così interessato a un tentativo di stabilizzazione politica che verta su Tripoli e che lo ponga in rotta di collisione sia con le autocrazie regionali che con Putin, due soggetti verso i quali ha dimostrato di non nutrire l’ostilità che aveva Obama.
È presto però per dire se la nuova amministrazione arriverà addirittura a sostenere Haftar. Bisognerà prima capire se la Libia sarà un Paese chiave o meno per il nuovo Presidente. Un’opzione potrebbe essere limitarsi a circoscritte operazioni di contro-terrorismo per uccidere capi jihadisti che minaccino direttamente gli Usa. Questo farebbe da corollario a un presidente sostanzialmente disinteressato al dossier libico, che lascerebbe alla mercè della lotta tra la burocrazia del Dipartimento di Stato, interessata a preservare quel po’ di tentativi di stabilizzazione che sopravviveranno, e l’establishment della Difesa, focalizzato sull’antiterrorismo e tentato dall’alleanza tattica con Haftar.
In altre parole, l’America di Trump potrebbe cadere nella stessa politica contraddittoria perseguita nel 2016 dalla Francia di Hollande. Facendo mancare il suo appoggio esplicito al governo di Tripoli, questa politica renderebbe più difficile anche il sostegno italiano e britannico e potenzialmente potrebbe permettere al fronte egiziano-emiratino-russo di pensare non più a una zona cuscinetto nell’est della Libia ma alla conquista del Paese intero, a partire della capitale Tripoli. Che poi questo possa avvenire in pratica è difficile a dirsi mentre più di un diplomatico europeo (anche in Francia) prevede che questo “vuoto” possa creare un’anarchia ancora maggiore di quella attuale.
Un frastagliato campo di battaglia è stato ed è ancora conteso dagli interessi e dalle divergenze di attori regionali e internazionali.
La Libia non è la Siria ma è comunque uno dei tanti campi di battaglia per le potenze regionali, per gli Usa e in misura minore per la Russia. Molte cose potrebbero cambiare sotto l’amministrazione Trump ma è bene avere il quadro di dove siamo ora.
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