Nel Kashmir indiano la crisi continua. Ad un mese dalla morte di Burhan Wani, il 22enne comandante del gruppo armato Hizbul Mujahideen, la spirale di violenza non accenna a fermarsi di fronte ai numeri delle vittime che aumentano ogni giorno.
Le forze dell’ordine – rinforzate da duemila soldati appena inviati nella valle – perseverano nella loro feroce gestione della folla, che il governo centrale presenta come decisamente virtuosa grazie all’uso di cosiddette “armi non-letali”: fucili a pompa che rilasciano centinaia di piccole palline di metallo – Matteo Miavaldi ne ha parlato recentemente. Inoltre negli ultimi 10 giorni sono cominciati anche raid notturni per arrestare i lanciatori di pietre a cui la popolazione ha risposto costruendo barricate di fortuna nella speranza di impedire l’accesso alle strade e proteggere i propri figli e parenti.
Il tutto avviene circondato da un silenzio assordante da parte della comunità internazionale, mentre le solite ed irremovibili retoriche nazionaliste del subcontinente si mobilitano.
Il premier indiano Narendra Modi qualche giorno fa ha rilasciato la sua prima dichiarazione pubblica riguardo la situazione: “Il Kashmir è un paradiso in terra, amato da ogni indiano. Ma alcuni malintenzionati stanno cercando rovinare la tradizione di questa regione”, accusando i giovani di essere strumentalizzati nell’interesse di pochi: “le pietre sono state messe in mano a ragazzi che dovrebbero impugnare computer, libri e mazze da cricket”
“Qualunque cosa stia accadendo in Kashmir è fomentata dal Pakistan” ha inoltre dichiarato Rajnath Singh, ministro degli interni, durante un dibattito parlamentare in cui ha confermato il mantra nazionalista che definisce il Kashmir come “parte integrante dell’India”. Di tutta risposta, il Pakistan ha indetto provocatoriamente un “Black Day”, coronato dall’affermazione del premier Sharif: “aspettiamo con ansia il giorno in cui il Kashmir diventerà parte del Pakistan”.
Ulteriormente, Mehbooba Mufti, chief minister del Jammu e Kashmir, non sembra avere il polso per controllare la situazione. Di certo le timide dichiarazioni e qualche visita ai genitori delle vittime non hanno fatto altro che aumentare il risentimento nei suoi confronti, covato dopo che il suo partito ha stretto un’alleanza governativa con il Bharatiya Janata Party – che non aveva mai fatto parte del governo in Kashmir prima d’ora. La popolazione teme questo possa costituire un attacco alla loro identità kashmiri, soprattutto in quanto musulmani.
Intanto nel sud dello stato, centro nevralgico delle proteste, i ribelli armati hanno imparato la lezione dimostrata da Burhan e come la comunicazione possa essere una fondamentale strategia della resistenza kashmiri – ne ho parlato qui – in funzione della mobilitazione degli animi. Ecco infatti che qualche giorno fa sono apparsi centinaia di poster nel distretto di Shopian che ritraggono un inedito gruppo di militanti che, con i fucili in mano, riproponendo l’immagine di Burhan con i suoi commilitoni apparsa qualche mese fa.

Ma questi non sono gli unici messaggi apparsi nelle strade.
Quando cala la notte molti giovani si armano di bombolette e marchiano i muri e le serrande dei negozi: “Burhan è il nostro eroe”,”Burhan il tuo sangue porterà avanti la rivoluzione” o “Oggi siamo in lutto, il leone non c’è più” . Ecco come, ancora una volta, alle mura della città viene affidata la custodia di memorie aspre e rivoltose che ogni giorno tormentano gli occhi dei passanti.

Nel Kashmir indiano la crisi continua. Ad un mese dalla morte di Burhan Wani, il 22enne comandante del gruppo armato Hizbul Mujahideen, la spirale di violenza non accenna a fermarsi di fronte ai numeri delle vittime che aumentano ogni giorno.