Né uomini, né donne, le hijra sono una comunità transgender antica di duemila anni.
Lo scorso 11 novembre il governo del Bangladesh ha approvato una modifica al regolamento anagrafico statale che potrebbe rivelarsi uno spartiacque per le minoranze sessuali del paese. Annunciata dal premier Sheikh Hasina, la norma introduce una terza definizione di genere che potrà essere utilizzata nei documenti ufficiali. Oltre che come “maschio” o “femmina”, i bengalesi possono ora identificarsi come hijra, una parola in lingua urdu che in occidente viene generalmente tradotta in “eunuco”.
L’espressione indica l’appartenenza a una comunità transgender che in Asia meridionale conta circa otto milioni di persone tra transessuali, castrati ed ermafroditi. Con questo termine ci si riferisce essenzialmente a individui che, pur essendo nati in un corpo maschile, sviluppano fin da bambini una marcata identità femminile.
A causa dello stigma che da due secoli la cultura indù pone sul transgenderismo, queste persone vengono spesso espulse, ancora giovani, dalle famiglie d’origine, finendo per condurre un’esistenza marginale tra baraccopoli, accattonaggio e prostituzione.
“In Bangladesh”, ha dichiarato il Segretario di Gabinetto nazionale, Muhammad Bhuiyan, “vivono oggi almeno diecimila hijra, che sono escluse anche da diritti basilari come quello all’abitazione, all’istruzione o alle cure mediche”. In parecchi casi, i problemi sorgono anche da semplici difficoltà amministrative.
“In molti paesi del subcontinente indiano – spiega Abhina Aher, coordinatrice del programma Pehchan dell’India HIV/Aids Alliance – l’assenza di una chiara identificazione per i transgender crea un vuoto burocratico che impedisce loro di attraversare i confini nazionali, di accedere al sistema sanitario o perfino di avere un telefono cellulare”.
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Né uomini, né donne, le hijra sono una comunità transgender antica di duemila anni.