Nel mondo anglosassone il termine “propaganda” ha una connotazione fortemente negativa, soprattutto in tempi moderni: è la comunicazione faziosa e falsa del nemico, come la “propaganda russa” della Guerra fredda. Ma è chiaro che è una questione di punti di vista.
Se si parla di cinema e propaganda, i cinefili citeranno il nome di Leni Riefenstahl, leggendaria regista tedesca. Il suo Trionfo della Volontà, del 1935, su un raduno del Partito nazista tenutosi a Norimberga l’anno prima, mirava a celebrare e consolidare il regime, ma è anche un trionfo di tecnica cinematografica che gli è valso un posto unico nella storia del cinema come opera “grande ma empia”. Così la definisce lo scomparso critico americano Roger Ebert in una sua recensione, salvo poi suggerire che forse non si trattò di un’opera così tanto grande.
Volendo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe argomentare che ogni buon film è propaganda, dato che essa può definirsi “attività finalizzata a promuovere un particolare punto di vista, spesso di natura faziosa o soggettiva”.
In effetti, al cinema, è proprio il particolare punto di vista – “giusto” o meno – che rende un’opera speciale e valida. Solo i film noiosi non hanno secondi fini: per dire qualcosa d’interessante ci vogliono una visione personale e un messaggio.
Nella critica cinematografica è predominante la cosiddetta “teoria dell’auteur”, formulata in Francia a metà degli anni Cinquanta dai critici che sarebbero poi divenuti i registi della Nouvelle Vague. Il suo principio è che, sebbene tutti i film siano realizzati con un processo industriale complesso che richiede un gran numero di ruoli creativi e anche di tecnici e attrezzature, l’unico autore dell’opera è il regista, perché essa propone il “suo” punto di vista.
Se è bravo, il principio è confermato dalla sua visione estetica e dalla sua conoscenza del montaggio e della fotografia, anche se la responsabilità di questi crediti è attribuita ad altri. Abbinando l’idea base della teoria dell’auteur alle succitate connotazioni negative del termine propaganda, si potrebbe dire che il regista è il “dittatore” del film, cioè chi decide qual è il significato dell’opera, come deve essere comunicato e quale effetto dovrà avere sul pubblico.
Appena entriamo nell’ambito della politica, il sottile confine tra l’arte e quella che alcuni chiamano propaganda può confondersi. È il caso del lavoro del cineasta israeliano Eran Riklis, il cui approccio pacifista e spesso super partes alle tensioni politiche della regione lo ha reso, forse paradossalmente, poco amato nel suo paese d’origine.
Riklis si è guadagnato invece una certa fama mondiale con La sposa siriana e Il giardino di limoni, che esaminano il conflitto arabo-israeliano da angolazioni molto personali. Il primo si concentra su un matrimonio druso celebrato al margine del confine; il secondo sulla sorte del frutteto di una donna palestinese che ha la sfortuna di vivere accanto al Ministro della Difesa israeliano, il quale esige che i limoni siano abbattuti perché, tra di essi, si potrebbero appostare eventuali terroristi.
Il suo ultimo sforzo, Dancing Arabs, in prima visione quest’anno ai festival di Locarno e Gerusalemme, è un adattamento duro ma efficace del best seller in parte autobiografico dello scrittore Sayed Kashua, che racconta cosa vuol dire crescere da arabo-israeliano in Israele e, nello specifico, essere uno dei rari studenti arabo-israeliani in una delle migliori scuole del Paese. Quasi tutti i film di Riklis varcano letteralmente – e soprattutto metaforicamente – i confini per vedere come il fatto di condurre la propria vita quotidiana in una zona così carica di tensione e potenziale violenza si rifletta su azioni in apparenza semplici: andare a scuola, sposarsi o coltivare limoni. In Dancing Arabs, c’è un momento rivelatore in cui il protagonista, il teenager araboisraeliano Eyad, durante una lezione di letteratura, sbotta a dire che i romanzi e le opere teatrali israeliane mostrano una faziosità quasi intrinseca nei confronti dei personaggi arabi – e anche nei suoi confronti, perché, anche se non lo dice, identica sembra essere la sua esperienza quotidiana e diretta.
C’è rabbia e un senso d’ingiustizia nella sua tirata, e si percepisce che Riklis, che lavora spesso con attori di entrambe le etnie, si rivolge quasi apertamente ai critici cinematografici di Israele, che hanno tacciato i suoi film di sbilanciarsi troppo in favore degli Arabi solo perché ritraggono sia questi che gli Israeliani come esseri umani ugualmente imperfetti, intenti ad andare avanti con la loro vita in circostanze di una difficoltà eccezionale che paiono ormai essere la normalità.
Nei film di Riklis, il semplice movente umanitario è spesso scambiato per propaganda nel senso negativo del termine, quando, al contrario, secondo l’accezione di auteur, si potrebbe vedere questo regista come un dittatore ossessivamente impegnato a diffondere un messaggio di pacifica coesistenza.
Nel mondo anglosassone il termine “propaganda” ha una connotazione fortemente negativa, soprattutto in tempi moderni: è la comunicazione faziosa e falsa del nemico, come la “propaganda russa” della Guerra fredda. Ma è chiaro che è una questione di punti di vista.