La ricerca di sostegno internazionale dall’Onu, dalla Nato e dall’Ue da parte dell’Italia si poggia su basi traballanti (per le quali occorre un errata corrige circa alcune cose scritte qui qualche tempo fa) che forse spiegano la reticenza di Ban Ki Moon.

Partiamo con il doveroso errata corrige, ché tra i moltissimi complimenti ricevuti in questi mesi (che apprezzo profondamente e mi spronano a continuare a seguire la vicenda con rigore) quello che mi sta più a cuore è l’apprezzamento della mia onestà intellettuale, e me lo voglio tenere stretto. Quindi se si sbaglia, lo si dice e si chiede scusa.
Nel pezzo “Cose che fareste bene a sapere sul caso marò / 2” e in altri pezzi pubblicati altrove ho erroneamente sottolineato come il ruolo dei marò su navi civili non fosse contemplato nelle missioni internazionali anti pirateria in cui l’Italia è impegnata. L’informazione che ho dato non è correttà, poiché nei dettagli sulla missione anti pirateria dell’Ue (Eu Navfor SOMALIA, meglio nota come missione Atlanta) si indica chiaramente che, tra le varie modalità previste dalle forze armate europee, c’è anche quella di caricare a bordo di non meglio specificate “navi” dei Vessel Protection Detachment; nel nostro caso italiano, i Nuclei di protezione marittima formati dai fucilieri di Marina.
L’Italia ha quindi formalmente diritto a prendere un maggiore coinvolgimento delle autorità internazionali nella disputa con l’India poiché è corretto, i marò – seppur con una convenzione scritta coi piedi che impone una catena di comando schizofrenica tra personale civile e militare in coabitazione su di un mezzo privato – agiscono effettivamente all’interno della missione Atlanta, a sua volta indetta seguendo la Risoluzione 2020 dell’Onu adottata all’unanimità nel 2011.
Però, c’è un enorme però.
La Risoluzione indica infatti che la richiesta di cooperazione internazionale vuole contrastare all’escalation di pirateria al largo della Somalia e infatti la missione Atlanta, nella sezione “Mandate”, spiega quali sono gli obiettivi dei contingenti militari dispiegati:
– La protezione di navi del World Food Programme che trasportano aiuti umanitari diretti alla popolazione somala e la protezione dei traasporti della African Union Mission in Somalia (AMISOM).
– Lo scoraggiamento, la prevenzione e la repressione di atti di pirateria e furto in mare al largo delle coste della Somalia
– La protezione di navi cargo vulnerabili al largo delle coste della Somalia, caso per caso.
– Monitoraggio delle attività di pesca al largo delle coste della Somalia.
L’intera missione, quindi, è strettamente circoscritta ad uno spazio marittimo generalmente indicato come “al largo della Somalia” (la missione parallela americana Ocean Shield, invece, delimita in modo più preciso l’area d’azione, indicando con lo stretto di Hormuz il limite Est delle attività militari).
Nel riferire in Senato le ultime novità della strategia diplomatica italiana nel caso, il ministro degli Esteri Emma Bonino ha specificato che l’affare marò non è più un caso bilaterale, avendo incassato il supporto della Nato e dell’Ue e cercando di smuovere la reticenza dell’Onu nel pronunciarsi in merito. Pier Ferdinando Casini, presidente della commissione Esteri al Senato, ha alzato il tiro denunciando la “presa in giro” dell’Onu, che non vuole immischiarsi e difendere la bontà dell’operato italiano.
Il rischio di allargare lo scontro diplomatico comporta delle prese di responsabilità e precisazioni piuttosto pericolose nell’ottica degli equilibri internazionali.
L’Italia e chiunque la appoggi in questa battaglia politica dovrebbe infatti spiegare all’India come mai dei propri militari, all’interno di un mandato della missione Atlanta circoscritto alle acque al largo della Somalia, si trovassero a svolgere i propri compiti a migliaia di chilometri di distanza, in Kerala; come mai una missione internazionale alla quale l’India non partecipa e con la quale non ha stretto alcun accordo bilaterale, si avvalga del diritto di agire ben all’interno della Zona economica esclusiva indiana (200 miglia nautiche) e all’interno delle acque contigue (24 miglia nautiche); come mai la presenza di militari a bordo della Lexie non è stata dichiarata immediatamente alle autorità indiane, secondo la legge indiana SR-13020/6/2009, “Pre-Arrival Notification for Security”, entrata in vigore il 29 agosto del 2011.
Per l’India è una questione di sovranità territoriale, orgoglio e pretesa di rispetto in seno alla comunità internazionale. Temi per i quali è disposta a battersi anche aggressivamente, fissando un precedente giuridico importante per tenere a bada i vicini turbolenti (Pakistan su tutti) ed esigendo una considerazione maggiore a livello internazionale.
La ricerca di sostegno internazionale dall’Onu, dalla Nato e dall’Ue da parte dell’Italia si poggia su basi traballanti (per le quali occorre un errata corrige circa alcune cose scritte qui qualche tempo fa) che forse spiegano la reticenza di Ban Ki Moon.