La legislazione internazionale sull’ambiente, in via generale, risulta limitata nel coniugare tutela del patrimonio collettivo, riconosciuta e tradotta formalmente in atti normativi, con incisive politiche di cooperazione su scala regionale. Molteplici fattori ostacolano la realizzazione di un piano di prevenzione ambientale condiviso a livello globale: molti paesi in via di sviluppo percepiscono l’allarme ecologico diffuso in tutto il Pianeta come impedimento alla crescita e al progresso economico, letto, soprattutto tra le emerging economies asiatiche, con la lente dell’incompatibilità tra sviluppo eco-sostenibile ed espansione finanziaria e commerciale sul mercato mondiale.
Lo sfruttamento incontrollato di risorse naturali ha generato un pericoloso cortocircuito nei meccanismi di salvaguardia dei “beni ambientali”, provocando, in particolare nel continente africano, ricorrenti crisi alimentari ed idriche dalle conseguenze esiziali per l’intero ecosistema. Calamità naturali legate a fenomeni climatici ad elevato impatto, quali siccità e surriscaldamento globale, si abbattono spesso su aree instabili, teatro di scontro politico e tensioni sociali. Oltremodo problematica è la debolezza governativa delle autorità locali, comune in molti stati dell’Africa sub-sahariana. Il predominio territoriale delle organizzazioni terroristiche nonché le acute conflittualità inter-etniche, impediscono una stabilizzazione istituzionale necessaria per intervenire con efficacia in materia di clima e ambiente. Situazione allarmante complicata da rapporti di forza che gravitano intorno agli interessi economici locali, alimentando corruzione e sperequazioni sociali: l’impotenza decisionale e lo scarso potere d’opposizione lascia diversi governi nazionali in balìa delle pressioni esercitate dalle multinazionali che impoveriscono, in modo talora irreversibile, intere regioni soggette non solo a minacce naturali endemiche, quali l’avanzata della desertificazione, ma anche, conseguenza deteriore del farraginoso sviluppo tecnologico ed economico continentale, alla piaga dell’inquinamento.
Preoccupano i dati del rapporto The cost of air pollution in Africa (2016) dell’Ocse, che riferiscono di un aumento dei decessi (circa 712.000 persone), legati, in maniera più o meno diretta, a fenomeni inquinanti. Gli esperti parlano di un aumento tendenziale, in costante crescita dagli anni ’90. Diversi i fattori concorrenti: le elevate emissioni dei mezzi di trasporto, dovute ad uno scarso monitoraggio sui veicoli (la maggior parte dei bus e delle automobili private in circolazione non sono conformi agli standard internazionali sulle emissioni di CO2); il massiccio uso domestico di generatori elettrici come risposta autonoma alle inefficienze delle reti pubbliche di erogazione d’energia elettrica (prima per dotazioni la Nigeria, con 12 milioni di mini-generatori e una spesa di circa 10 miliardi di dollari, tra il 2009 e il 2012), libera nell’atmosfera monossido di carbonio e particolato; le emissioni causate dall’impiego di combustibili per uso domestico, principali responsabili di danni respiratori e polmonari, vedono particolarmente esposti bambini e gestanti (in Africa, 4,6 milioni di individui muoiono a causa di tali patologie, come segnala l’Oms).
Scrive Gianni Silvestrini, scienziato italiano esperto di politiche energetiche: “Considerata la decisione presa con l’Accordo di Parigi (2015, ndr) di destinare notevoli risorse ai paesi più poveri per sostenere le politiche di adattamento e di mitigazione, è possibile pensare ad un rafforzamento delle iniziative volte a ridurre sia i rischi climatici che gli impatti locali dell’inquinamento dell’aria” (da Il preoccupante inquinamento in Africa: impatti sanitari, ambientali e soluzioni, Nigrizia.it, gennaio 2017). Ragionare su problemi complessi e interrelati richiede strumenti d’intervento adeguati e non deve esimere molti governi occidentali dall’assumere consapevolezza di fronte alle estreme difficoltà che incontra il dibattito politico sulla “questione ecologica” presso l’opinione pubblica, anche laddove essa sia più informata e sensibile alle tematiche ambientali. Presupposto necessario, ampliando dunque lo spettro, è la volontà della comunità internazionale di operare su piano d’azione condiviso tra governi locali, organizzazioni umanitarie ed organismi transnazionali, per programmare misure d’intervento strutturali. Uno dei fronti su cui operare fin da subito? Rinegoziando le concessioni concordate con le multinazionali, mediante l’imposizione vincoli di salvaguardia ambientale più stringenti, si possono fermare disastri irreversibili causati dall’inquinamento dovuto allo scarico di rifiuti e allo sfruttamento incontrollato di risorse naturali (le estrazioni nel Delta del Niger sono un caso allarmante, come denunciano, ormai da anni, molte associazioni). Danni che, tuttavia, possono essere ascritti alla categoria delle “criticità emergenziali”. Uno spazio d’intervento di medio-lungo periodo va riservato sul piano della governance per mezzo di una ripartizione delle competenze amministrative tra enti, autorità, imprese che operano a livello locale, supportate dalle agenzie internazionali e coordinate dalle Nazioni Unite. Un insieme di meccanismi complessi che, nel caso africano, presentano una preoccupante serie di fenomeni degenerativi che sovente precludono al continente possibilità di sviluppo e di crescita politica, sociale ed economica.
Osservando i mutamenti ambientali, intervenuti a livello macro-regionale, ci troviamo di fronte ad una (in)stabilità strutturale: il numero di catastrofi naturali nel mondo è in costante crescita da oltre quattro decenni, conseguenza diretta, in vaste zone dell’Africa, di fattori legati alla desertificazione e alla siccità che avanzano inesorabili con un impatto devastante sulle colture e sulla disponibilità di spazi e risorse produttive. Nelle regioni del Corno d’Africa, gravi carestie di dimensioni macroscopiche si presentano con crescente periodicità insidiando le popolazioni, strette nella morsa delle tensioni politiche interne e fiaccate dalla penuria di fonti di sostentamento. Carenze idriche e alimentari “senza precedenti negli ultimi decenni”, come riferisce un recente rapporto delle Nazioni Unite, sono fenomeni che spingono giovani e donne a migrazioni “forzate” a causa della diffusa malnutrizione e del progressivo insorgere di nuove epidemie. Cinquant’anni dopo l’ecatombe della guerra nel Biafra (1957), un’ennesima devastante crisi alimentare minaccia di colpire oggi più di 30 milioni di persone, inasprendo la contesa intorno alle risorse essenziali alla sopravvivenza sullo sfondo di virulente rivendicazioni territoriali che, specie nell’Africa sub-sahariana e centro-orientale, sono agitate dalla presenza capillare di gruppi terroristici e fazioni anti-governative. Fattori destabilizzanti che non favoriscono la cooperazione tra governi locali e organizzazioni umanitarie, più sensibili alle dinamiche sociali e meno coinvolte in interessi di parte che connotano e spesso orientano l’operato amministrativo. Le autorità nazionali, delegittimate e impotenti innanzi ad emergenze che colpiscono su larga scala aree sconfinate, sono renitenti a supportare gli aiuti, peraltro essenziali, di molte Ong che da anni forniscono sostegno alimentare e assistenza sanitaria nelle zone più disagiate.
Resta, come detto, un nodo politico da sciogliere: senza l’attuazione di un piano d’intervento disposto dalla comunità internazionale che preveda il coordinamento tra organismi internazionali (Nazioni Unite e agenzie “satelliti”) e Ong, risulta difficoltoso se non del tutto inefficace, produrre concreti benefici che non si riducano ad interventi contingenti. Nel 2014, la diffusione del virus Ebola in Africa occidentale ha colpito Guinea, Liberia e Sierra Leone, paesi afflitti da povertà cronica e teatro di sanguinose guerre civili, mostrando l’incapacità operativa dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). A causa del consistente ridimensionamento nel budget dell’agenzia delle Nazioni Unite (Bill & Melinda Gates Foundation, ente no profit privato, è oggi il primo finanziatore dell’organizzazione, segnale inequivocabile della disattenzione dei paesi occidentali), risorse umane numericamente inadeguate hanno affrontato l’epidemia contando sul supporto del sistema sanitario locale, al collasso in termini di mezzi e impreparato sotto il profilo del personale medico. Il contagio di alcuni cittadini europei e statunitensi ha indotto l’Oms a dichiarare Ebola “global emergency”. Molti analisti internazionali hanno denunciato le modalità d’intervento dell’agenzia delle Nazioni Unite: dopo appena quattro mesi dai primi focolai, l’emergenza del virus Ebola fu definita in un duro articolo del Washington Post “out of control” (4 ottobre 2014). Il sito d’informazione statunitense Foreign Affairs, ha pubblicato un’accurata analisi condotta da alcuni autorevoli politologi (Where Beijing, Washington, and African Governments Can Work Together, 3 marzo 2017), nella quale si sottolinea la necessità di supportare operazioni di cooperazione transnazionale tra Stati Uniti, Cina e stati africani per fronteggiare emergenze sanitarie e ambientali. Occorre, spiegano gli esperti, superare la strategia degli accordi bilaterali per estendere interventi di peacekeeping atti a contenere la proliferazione di conflitti armati, unendo le forze per contrastare minacce terroristiche e criminalità organizzata. In particolare, azioni di coordinamento avviate dalla precedente amministrazione statunitense di Barack Obama e dal governo cinese di Xi Jinping, in accordo con l’Unione Africana e l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, hanno raggiunto risultati rilevanti, anche in materia di salvaguardia ambientale e assistenza sanitaria, finalizzati allo sviluppo economico delle singole aree d’intervento: dal contrasto al virus Ebola alle operazioni di sicurezza navale nel Golfo di Guinea, condotte in Africa occidentale, l’intesa tra Usa e Cina ha spinto entrambi i paesi a concentrare gli sforzi nella parte centro-orientale del continente. Il contrasto alla pirateria nel Golfo di Aden, avviato nel 2008 sotto l’egida dell’ONU d’intesa con le autorità somale, ha permesso il rafforzamento del controllo sui commerci marittimi, vitali ai fini dell’interscambio economico nell’area, nonché centrale nel contrasto al traffico di armi e nella gestione dei flussi migratori dalla Somalia e dal Sud Sudan, da cui provengono molti profughi diretti verso la Penisola araba. L’accrescersi delle tensioni che, a partire dal 2013, hanno segnato una recrudescenza nella guerra intestina tra la Repubblica del Sudan, a nord e la Repubblica del Sudan del Sud, indipendente dal 2011, rivelano aspetti drammatici del nesso tra guerra e cambiamento climatico, cause principali del moltiplicarsi delle cosiddette migrazioni “forzate”. Le tensioni “ambientali”, dati dalla commistione tra conflitti sociali e impatto climatico, come segnala una nota congiunta di Unhcr e Unicef diffusa lo scorso maggio, hanno avuto un impatto devastante su un territorio e su una popolazione vulnerabile, fiaccata da anni di ostilità e carestie. Milioni di persone hanno da tempo lasciato il Sud Sudan riparando nella parte settentrionale o fuggendo in Uganda, Etiopia e Kenya. Le ultime stime delle Nazioni Unite parlano di circa 1,8 milioni di bambini (il 62% dei rifugiati provenienti dal Sud Sudan), mentre un milione di minori dispersi sarebbe ancora nel Paese. La carenza di risorse spinge le popolazioni più colpite a percorrere centinaia di chilometri in cerca di cibo e acqua, merce rara su cui grava il peso del contrabbando che, rafforzatosi nel perdurante stato di carestia che affligge molte zone dell’Africa centro-orientale, aumenta in modo esponenziale il prezzo dei prodotti alimentari. Il vertiginoso incremento dei flussi migratori esacerba le tensioni inter-etniche mentre lievita il giro d’affari dei trafficanti di esseri umani. “L’entità della situazione richiede un’azione comune immediata e il coordinamento a livello nazionale e regionale”, affermava lo scorso febbraio Maria Helena Semedo, vicedirettore generale per gli eventi climatici e naturali della FAO, ribadendo la necessità di un coordinamento sul territorio. “La situazione di siccità nella regione – queste le parole di Semedo – è estremamente preoccupante, con milioni di persone a rischio di insicurezza alimentare in tutta la regione”. Il rapporto dell’organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite avverte sul pericolo che il notevole calo delle precipitazioni sopraggiunto negli ultimi mesi del 2016 possa portare ad una nuova carestia, più devastante di quella che nel 2011 colpì l’intera regione del Corno d’Africa. L’insicurezza alimentare è un rischio diffuso e generalizzato: oltre 17 milioni di persone necessitano con urgenza di assistenza umanitaria. Tra i paesi più colpiti, vi sono Kenya, Etiopia e Somalia. Il governo di Nairobi negli scorsi mesi ha proclamato lo stato di emergenza nazionale a causa della forte siccità: numerose contee nel nord, al confine con l’Uganda, hanno subito un brusco razionamento delle scorte di cereali e prodotti animali, dovuta al calo di produzione che ha interessato la raccolta agricola e l’allevamento di bestiame. Esemplificativo il caso della Somalia: da anni il Paese affronta le tragiche conseguenze di frequenti carestie e nel 2011, l’ennesima manifestazione di un fenomeno divenuto endemico, ha mietuto oltre 260 mila vittime. Ripetuti appelli lanciati dalla popolazione e dai volontari che operano in Somalia sono rimasti inascoltati e, nel frattempo, insorge l’allarme per l’epidemia di colera (le autorità locali hanno registrato solo quest’anno 17 mila nuovi casi). Entrambe le sponde del Golfo di Aden vivono un’emergenza che si aggrava quotidianamente e alla quale, per ora, non si può ovviare in alcun modo, data la momentanea indisponibilità di vaccini per questa ed altre malattie. Il colera, stando ai dati raccolti da Unicef e Oms, ha colpito 200 mila persone in Yemen causando, nel periodo estivo corrente, centinaia di morti. Cause concomitanti, perlopiù acuite da fenomeni naturali di natura climatica, sono il totale dissesto della rete idrica e dell’infrastrutture di collegamento per l’accesso alle risorse che, nel caso yemenita, è aggravato da oltre due anni di sanguinosi conflitti civili tutt’ora in corso. Camerun, Ciad, Nigeria, Niger, posti a corona del lago Ciad, subiscono gli effetti drammatici del surriscaldamento provocato dal periodico passaggio di El Niño, fenomeno climatico responsabile di inondazioni, incendi e siccità. Alle calamità naturali, si somma la violenza perpetrata dai miliziani del gruppo terroristico jihadista Boko Haram: milioni di persone, originarie di questi regioni, sono in marcia alla disperata ricerca di cibo, acqua e assistenza sanitaria. Nel 2016, riferisce un rapporto della FAO, il numero complessivo di rifugiati e richiedenti asilo costretti ad emigrare per guerre e conseguenze legate al cambiamento climatico si è incrementato di circa 3 milioni di persone rispetto all’anno precedente. “Un terzo dei migranti di tutto il mondo fugge da dove risiede per ragioni climatiche. E di profughi climatici ne avremo sempre di più”.
Le parole pronunciate dal viceministro degli Esteri italiano Mario Giro marcano la preoccupazione per una serie di fenomeni macroscopici che interessano circa 240 milioni di persone, di cui 60 milioni nel solo Corno d’Africa. Gli esperti parlano di “eco-profughi” concentrando l’analisi sull’incidenza legata all’accesso alle risorse idriche e alla crescita demografica: entro il 2050, secondo le stime dell’Unhcr (2008), il numero complessivo dei rifugiati ambientali sarà intorno ai 200/250 milioni di persone. Un report del Parlamento europeo segnala che, nel solo 2014, circa 17 milioni di persone provenienti perlopiù dall’Africa sub-sahariana hanno lasciato le loro terre a causa degli effetti prodotti dal cambiamento climatico. Sul dramma dei migranti ambientali, definiti dall’ambientalista inglese Norman Myers, “persone che non possono più garantirsi mezzi sicuri di sostentamento nelle loro terre di origine a causa di fattori ambientali di portata inconsueta”, si interrogano analisti politici e rappresentanti delle istituzioni europee, preoccupati dai molteplici scenari di crisi (eco)sistemica in Africa. Di fronte alla complessità del sottosviluppo e del degrado ambientale, si rinuncia a porre al centro la questione cruciale del rispetto dei diritti umani connessi alla salvaguardia ambientale: l’assenza di un riconoscimento giuridico a tutela delle vittime di devastazioni ambientali evidenzia un’inaccettabile vulnus nella legislazione internazionale. Negli ultimi anni è stata sollevata, all’incrocio tra diritto internazionale ed economia, la controversia del land grabbing in molte zone africane: l’accaparramento di terreni fertili e ad alta densità di risorse naturali da parte delle principali companies europee, americane e, negli ultimi anni, cinesi continua a produrre squilibri destabilizzanti sul piano ambientale con ripercussioni sulla vita sociale, politica ed economica dei cittadini africani. Solo un’agenda politica internazionale e di respiro globale può imporre un riassestamento che parta, innanzitutto, da una più rigida disciplina, anche sul piano dell’innovazione normativa, in materia accordi economici e di scambi commerciali tra paesi occidentali e stati africani; politiche di cooperazione sul piano delle sicurezza internazionale e della protezione regionale vanno declinate tenendo conto del rispetto dei diritti individuali che, come emerge da uno studio condotto dal Parlamento europeo a proposito del land grabbing (Addressing the Human Rights Impacts of Land Grabbing, dicembre 2014), si rivelano cruciali nel definire il confine della salvaguardia e delle tutela ambientale, declinata su un piano trasversale che ponga al centro la responsabilità dell’azione umana e dell’impatto sull’ecosistema, alla luce dei sempre più repentini mutamenti climatici che interessano il Pianeta. “Il cambiamento climatico – ricordava nel 2011 l’allora segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon – è una «Miscela diabolica» che potrebbe creare pericolosi vuoti di sicurezza e che dobbiamo affrontare un chiaro pericolo, che non solo esacerba le minacce, ma è in sé una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali”. Dignità umana, sostenibilità ambientale, mobilità sociale sono dunque aspetti centrali che devono orientare il processo decisionale nell’immediato futuro verso quello che, in un saggio dall’omonimo titolo, il filosofo Hans Jonas definisce “principio di responsabilità”, presupposto alla base dell’agire umano.
@Valente_Tweet
La legislazione internazionale sull’ambiente, in via generale, risulta limitata nel coniugare tutela del patrimonio collettivo, riconosciuta e tradotta formalmente in atti normativi, con incisive politiche di cooperazione su scala regionale. Molteplici fattori ostacolano la realizzazione di un piano di prevenzione ambientale condiviso a livello globale: molti paesi in via di sviluppo percepiscono l’allarme ecologico diffuso in tutto il Pianeta come impedimento alla crescita e al progresso economico, letto, soprattutto tra le emerging economies asiatiche, con la lente dell’incompatibilità tra sviluppo eco-sostenibile ed espansione finanziaria e commerciale sul mercato mondiale.
Lo sfruttamento incontrollato di risorse naturali ha generato un pericoloso cortocircuito nei meccanismi di salvaguardia dei “beni ambientali”, provocando, in particolare nel continente africano, ricorrenti crisi alimentari ed idriche dalle conseguenze esiziali per l’intero ecosistema. Calamità naturali legate a fenomeni climatici ad elevato impatto, quali siccità e surriscaldamento globale, si abbattono spesso su aree instabili, teatro di scontro politico e tensioni sociali. Oltremodo problematica è la debolezza governativa delle autorità locali, comune in molti stati dell’Africa sub-sahariana. Il predominio territoriale delle organizzazioni terroristiche nonché le acute conflittualità inter-etniche, impediscono una stabilizzazione istituzionale necessaria per intervenire con efficacia in materia di clima e ambiente. Situazione allarmante complicata da rapporti di forza che gravitano intorno agli interessi economici locali, alimentando corruzione e sperequazioni sociali: l’impotenza decisionale e lo scarso potere d’opposizione lascia diversi governi nazionali in balìa delle pressioni esercitate dalle multinazionali che impoveriscono, in modo talora irreversibile, intere regioni soggette non solo a minacce naturali endemiche, quali l’avanzata della desertificazione, ma anche, conseguenza deteriore del farraginoso sviluppo tecnologico ed economico continentale, alla piaga dell’inquinamento.