Tony Allen è uno di quei pochi, pochissimi musicisti che possa pensare di avere davvero creato qualcosa di sostanzialmente nuovo, che ha cambiato il modo di fare e ascoltare musica. Non da solo, certo. Fela Kuti resterà sempre il grande nume tutelare che è giusto che sia. Ma l’Afrobeat è anche suo legittimissimo figlio.

Non è quindi un caso se Tony Allen viene definito da molti il più grande batterista e percussionista che l’Africa abbia mai conosciuto. Se chiunque vorrebbe collaborare con lui. In tanti ci sono riusciti in questi ultimi anni, da quando, dal 2000 in poi diciamo, ha ripreso con intensità la sua attività musicale e discografica. Ha suonato con le Zap Mama, con Jimi Tenor e con Charlotte Gainsbourg, nei supergruppi The Good, The Bad & The Queen e Rocket Juice and the Moon.
E ancora oggi, anche se ha 74 anni, l’uscita di un suo nuovo disco viene considerata un evento importante. Il suo decimo album da studio si intitola “Film of Life”, il film di una vita insomma, e, coerentemente con il titolo, contiene influenze musicali varie e diverse, così come è stato per la carriera musicale di questo straordinario artista. C’è l’afrobeat, e non poteva essere diversamente. Ma c’è anche il jazz, il bebop in particolare, e il pop, con cui in questa seconda parte della sua carriera ha flirtato spesso e volentieri.
C’è ancora Damon Albarn, già leader dei Blur e figura iconica della musica britannica, che collabora alla voce e alle tastiere nella prima canzone resa disponibile dal nuovo lavoro di Allen. Con Albarn il batterista nigeriano ha costruito negli anni un sodalizio importante, che ha permesso a entrambi di ampliare il proprio pubblico e le proprie possibilità. L’amalgama tra i due si conferma, anche in questa occasione, naturale e immediata: “Go Back”, la canzone in questione, è un brano capace di scivolare morbidamente tra modernità pop, retro-soul di Philadelphia e ritmi africani.
Peraltro questo brano porta con sé significati che possono – forse devono – toccare noi italiani un poco più da vicino, come ben racconta il video della canzone che esplicita in modo potente e contemporaneamente poetico l’intrinseco omaggio ai rifugiati africani che sono arrivati in questi mesi e anni sull’isola di Lampedusa.
Invece l’apertura del nuovo album di Tony Allen serve quasi da introduzione storica, come fosse una specie di voce di Wikipedia tradotta in musica: “Moving on” è costruita su uno scheletro di ritmo in perfetto equilibrio tra funk e afrobeat, su cui si innestano chitarre sincopate e fiati densi e squillanti. La batteria è una sorta di riassunto dello stile che reso celebre il suo interprete. La voce dello stesso Allen infine recita, aiutata da Audrey Gbaguidi in pieno stile “call and response”, la propria storia attraverso i titoli delle storiche incisioni.
Il cantante americano di origini nigeriane Kuku dimostra invece la propria grande classe in “Koko Dance” e “Tony Wood”, riuscendo a dare a questi due brani un’iniezione di profonda e accattivante contemporaneità. Al resto pensano i francesi Jazzbastards, che si sono prestati sia come backing band che come produttori dell’intero album. Un disco che se non può, materialmente, riassumere una carriera monumentale come quella del suo autore, riesce a racchiudere in sé almeno alcuni degli elementi chiave che hanno reso Tony Allen una figura fondamentale della storia della musica.
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Tony Allen è uno di quei pochi, pochissimi musicisti che possa pensare di avere davvero creato qualcosa di sostanzialmente nuovo, che ha cambiato il modo di fare e ascoltare musica. Non da solo, certo. Fela Kuti resterà sempre il grande nume tutelare che è giusto che sia. Ma l’Afrobeat è anche suo legittimissimo figlio.