
«Riuscirà Ankara a riprende il suo potere nel Vicino Oriente?», si interrogava nel 2011 Hamze Jammoul, giurista libanese ed esperto nella gestione dei conflitti internazionali. Allora le recenti primavere arabe avevano aperto grandi spazi di manovra per la Turchia di Erdogan, vicina politicamente a quella Fratellanza Musulmana che andava conquistando il potere negli Stati travolti dalle rivoluzioni.
«In passato il grande sogno turco affrontava degli ostacoli rappresentati dal continuo ruolo strategico dell’Iran in Libano, Siria e Iraq, e della solida alleanza tra i due paesi Arabi più influenti: Arabia Saudita ed Egitto», spiegava ancora Jammoul, ipotizzando un futuro più favorevole alle aspirazioni neo-ottomane di Erdogan. In Egitto erano da poco al potere i Fratelli Musulmani, e così in Tunisia. In Siria Assad sembrava destinato a seguire la sorte di Mubarak in Egitto – se non di Gheddafi in Libia –, privando l’Iran del suo principale alleato, e l’Arabia Saudita non pareva ostile agli sviluppi in corso. Il Qatar, monarchia del Golfo piccola ma molto ricca, e influente grazie al suo canale tv Al Jazeera, faceva gioco di squadra con Ankara per sostenere la Fratellanza Musulmana dove possibile, cercando di ritagliarsi un ruolo nello scacchiere regionale. Nel 2015 si può dire che del sogno turco restano giusto i cocci.
In Egitto un golpe militare ha spodestato il presidente Mohammed Morsi, della Fratellanza, per mettere al potere l’ex generale Al Sisi. In Tunisia alle ultime elezioni ha vinto il partito laico Nidaa Tounes, dopo i primi anni di governo di Ennahda (Fratelli Musulmani). In Libia è scoppiata una guerra civile, con due governi (uno riconosciuto internazionalmente, laico, e con sede a Tobruk; un altro, sostenuto da Turchia e Qatar, islamista, con sede a Tripoli) e le infiltrazioni dello Stato Islamico. In Siria e Iraq, proprio la nascita dello Stato Islamico e il crescente peso delle componenti estremiste nella ribellione, hanno portato a un rafforzamento diplomatico di Assad e del suo alleato-protettore iraniano. Inoltre Teheran ha approfittato del caos creato dal fanatismo islamico sunnita nell’area per guadagnare appoggio internazionale (se l’asse sciita è nemico dell’Isis, e i nemici dei nostri nemici sono nostri amici, Teheran e Damasco non sono mai state tanto inconfessabilmente apprezzate dall’Occidente) e terreno in Iraq.
Di fronte a queste evoluzioni l’Arabia Saudita – avversario regionale dell’Iran – non è rimasta immobile. Dopo aver frenato l’interventismo del vicino Qatar – con anche gravi tensioni diplomatiche lo scorso marzo – a sostegno dei Fratelli Musulmani, ha rinsaldato l’asse con l’Egitto guidato dai militari (tornando così all’assetto precedente le primavere arabe) e sta cercando la sponda dell’Occidente (anche di Israele, con cui condivide molti obiettivi di breve e medio termine) per evitare che Teheran riesca a uscire dall’isolamento internazionale e a riguadagnare un ruolo geopolitico strategico nell’intera regione. Così stando le cose la Turchia si trova ad essere isolata e sulle difensive, schiacciata tra l’alleanza Cairo-Riad da un lato e l’asse sciita dall’altro, con la questione curda esplosa (grazie al conflitto con l’Isis) ai propri confini e con rapporti mai così freddi con l’Occidente. Ma proprio passando da una strategia di espansione a una di contenimento, Ankara può ora ritagliarsi un ruolo nella soluzione di diverse crisi regionali.
«In Libia la situazione attualmente è molto complicata per la Turchia, che con il Qatar sostiene il governo islamista di Tripoli. La settimana scorsa il governo di Tobruk ha annunciato la cancellazione dei contratti in essere con imprese turche – secondo quanto dichiarato l’anno scorso dall’associazione delle imprese costruttrici turche gli investimenti attualmente congelati per gli scontri tra fazioni ammontano a 19 miliardi di dollari – scatenando la reazione diplomatica turca», spiega Leandro Di Natala, analista dell’European Strategic Intelligence and Security Center. «Ma senza un accordo tra i due governi sarà l’Isis ad approfittarne, quindi – come anche suggerito dall’Onu – la via diplomatica resta quella principale, e qui sicuramente la Turchia potrà far valere il proprio peso. Molto più complessa la situazione sul fronte Iraq-Siria. L’Isis è stato, de facto, un alleato prezioso per la Turchia, facendo guerra contemporaneamente a tre nemici di Ankara: i curdi, il governo di Assad e le milizie sciite irachene. Ora però, per uscire dall’isolamento internazionale e per assecondare le pressioni degli alleati, la Turchia è costretta a schierarsi contro lo Stato Islamico. Non a caso il premier turco Erdogan ha annunciato il progetto di addestrare, insieme agli Usa, combattenti siriani in ottica anti-Isis (e, secondo i desiderata di Ankara, anche anti-Assad). Questo avrà probabilmente un prezzo pesante per Ankara, che ha nel suo territorio diverse cellule dell’Isis che potrebbero compiere azioni terroristiche in ritorsione (l’attentato kamikaze di una donna del Daghestan, vedova di un foreign fighters norvegese, a una stazione di polizia di Istanbul è un precedente inquietante). La decisione della Turchia di rimpatriare i 40 soldati che proteggevano la tomba di Suleyman Shah, e la tomba stessa, dal territorio siriano è da leggere come una mossa preventiva».
La prospettiva della Turchia su questo fronte è dunque necessariamente di medio periodo. Nel breve probabilmente non parteciperà con soldati sul terreno all’offensiva di primavera che le forze regolari irachene e i guerriglieri curdi lanceranno, col sostegno degli Stati Uniti, contro lo Stato Islamico per riconquistare Mosul. Quando saranno pronte le milizie siriane addestrate da Ankara – 5 mila a fine anno, 15 mila in un triennio –, riconducibili a forze politicamente vicine ai Fratelli Musulmani, lo scenario potrebbe però cambiare. Nell’eventualità che lo Stato Islamico venga infatti sconfitto, o comunque drasticamente indebolito, Assad non sarebbe più un alleato di fatto dell’Occidente contro l’Isis e la Turchia potrebbe cercare un ruolo di regia nella guerra civile delle fazioni islamiche a lei più vicine.
«Quello che la Turchia deve risolvere ora è un dilemma strategico: correre il rischio che, dagli sviluppi di una guerra allo Stato Islamico, nasca uno Stato curdo ai suoi confini è contrario alla tradizionale linea di Ankara», prosegue Di Natala. «Tuttavia, avendo Erdogan abbandonato la politica del “nessun nemico ai confini” – Siria, Iraq e Iran sono oramai ostili, oltre ad Egitto, Giordania, Emirati e Sauditi – per uscire dall’isolamento internazionale ha bisogno della sponda dell’Occidente. Qualche concessione agli alleati Nato dovrà farla, in materia di contrasto al terrorismo e forse anche sui curdi – conclude Di Natala -, ma almeno giocherebbe la partita con degli interlocutori aperti al dialogo, specie in un periodo di forte tensione con la Russia».
«Riuscirà Ankara a riprende il suo potere nel Vicino Oriente?», si interrogava nel 2011 Hamze Jammoul, giurista libanese ed esperto nella gestione dei conflitti internazionali. Allora le recenti primavere arabe avevano aperto grandi spazi di manovra per la Turchia di Erdogan, vicina politicamente a quella Fratellanza Musulmana che andava conquistando il potere negli Stati travolti dalle rivoluzioni.