Nelle ultime settimane qui in India ha preso piede una polemica molto sentita, almeno a livello mediatico, ma di difficile comprensione – immagino – per i lettori non indiani. Si parla di “conversioni forzate” e di destra ultrainduista che sta cercando di “riportare a casa” gli infedeli che, in passato, si convertirono all’Islam o al Cristianesimo. E la religione non c’entra molto.
Tutto inizia i primi giorni di dicembre, quando sui quotidiani indiani viene pubblicata la storia di un evento organizzato nei dintorni di Agra da membri della Dharm Jagran Samiti e della Bajrang Dal, due sigle dell’estremismo hindu all’interno del circuito della Sangh Parivar, che raccoglie gli ultrainduisti di tutto il paese.
Il quotidiano The Hindu parla di un “cerimoniale durato alcune ore che simboleggiava la ri-conversione alla fede induista” da parte di 60 famiglie musulmane residenti nelle zone rurali appena fuori Agra. In seguito portavoce dei gruppi avrebbero spiegato ai media che si era trattato di un Ghar Vapsi, un “ritorno a casa”, poiché la cosiddetta ortodossia hindu (che poi una vera e propria ortodossia non c’è, gli indologi che leggeranno storceranno il naso, chiedo loro di aiutarmi nei commenti sotto) indica che chi è nato in Hindustan è automaticamente hindu e, di conseguenza, l’India deve essere la Nazione degli Hindu (posizione che Mohan Bhagwat, leader della Rashtriya Swayamsevak Sangh – nella foto in alto – ha chiarito a più riprese anche negli ultimi giorni).
La giustificazione che viene quindi data è: stiamo semplicemente dando l’opportunità a chi volesse di ritornare sulla “retta via”, poiché i convertiti ad altre religioni lo furono contro la loro volontà.
Il problema è che le famiglie interessate hanno poi dichiarato di “non aver capito” di essere nel bel messo di un rito di conversione, che loro non avevano la minima idea di convertirsi e che sono stati “fregati”. Le indagini hanno evidenziato come l’invito a questo Ghar Vapsi fosse stato accompagnato da promesse di favori, consegne di terreni gratuiti, consegne di tessere per avere accesso ai beni di consumo calmierati dal governo (Adhaar Card).
Nell’India rurale episodi come questo possono essere assimilabili al nostro voto di scambio, poiché la mobilitazione politica e i comizi vengono fatti poggiandosi su base religiosa e castale: riconvertire all’induismo delle famiglie musulmane significherebbe farli rientrare nel sistema di clientelarismo attraverso il quale si racimolano voti.
La cosa, chiaramente, ha mandato su tutte le furie i “secolari” del parlamento, che hanno protestato con veemenza nelle ultime sessioni dei lavori per il comportamento scorretto degli ultrainduisti. Che, sempre a mezzo stampa, hanno chiarito che se ne fregano altamente, annunciando anzi altri Ghar Vapsi in tutta l’India.
Eventi del genere, apprendiamo oggi, hanno interessato anche alcune comunità di cristiane siro-malabar in Kerala, mentre la minaccia di organizzare un rito di ri-conversione popolare proprio il giorno di Natale ad Aligarh – a una manciata di chilometri da Ayodhya, Uttar Pradesh, celebre per la distruzione della moschea Babri – pare sia rientrata grazie all’intercessione dell’ala meno estremista del Bharartiya Janata Party.
Al di là del folklore, questa polemica pare stia danneggiando molto Narendra Modi, primo ministro eletto anche con i voti dell’estremismo hindu e lui stesso proveniente dalle fila della Rashtriya Swayamsevak Sangh. Il problema di Modi, che su questa faccenda non ha speso una parola pubblica, fino ad ora, è che le intemperanze dei membri della Sangh rischiano di riportare in auge il problema macroscopico dell’estremismo hindu di governo.
Se fino ad ora Modi è riuscito a mostrarsi davvero come “il primo ministro di tutti”, adesso ogni sua inazione viene interpretata come una sorta di silenzio assenso, dando ragione ai molti critici che mettevano in guardia sull’elezione di un sanghi (membro della Sangh) a capo del governo indiano formalmente laico, con la responsabilità di governare un paese dove la minoranza musulmana conta oltre 170 milioni di persone.
Nelle ultime settimane qui in India ha preso piede una polemica molto sentita, almeno a livello mediatico, ma di difficile comprensione – immagino – per i lettori non indiani. Si parla di “conversioni forzate” e di destra ultrainduista che sta cercando di “riportare a casa” gli infedeli che, in passato, si convertirono all’Islam o al Cristianesimo. E la religione non c’entra molto.