Spedire un pacco. Operazione apparentemente semplice, una volta reperito un vecchio scatolone di bibite dal “supermercato” di Santiniketan, letargica cittadina a quattro ore da Calcutta, immersa nella campagna bengalese: da due anni, casa.

Lo si riempie di libri e vestiti, visto trasferimento imminente in Italia, roba che non serve portarsi sulle spalle, e ci si dirige al post office in riksha (risciò). Al post office i funzionari, sempre entusiasti ed euforici alla vista di una coppia di occidentali in grado di comunicare con loro nella lingua locale bengali, ci indicano un angolo dell’ufficio dove lasciare i pacchi, in attesa che torniamo dal cartolaio, ché – ricordiamo noi – in India è necessario avvolgere il pacco con una carta marroncina tipo quella dei nostri panettieri. Costumi locali che noi seguiamo alla lettera.
Si riprende il riksha, cartolaio, compra la carta e torna al post office dove i funzionari finalmente ti degnano di attenzione oltre che di sorrisi e ti dicono no, per i pacchi così grandi la carta non va bene, bisogna farselo avvolgere dal sarto.
Riprendi il riksha (e tre), vai dal sarto “convenzionato” col post office che ti cuce un vestitino bianco per il tuo pacco, lo chiude e copre tutte le cuciture con della ceralacca rossa. Tempo previsto per l’operazione? 15 minuti. Tempo effettivo: un’ora.
Riprendi il riksha (e quattro), torna al post office, pesa il pacco, scrivi indirizzo prima sul vestitino bianco (con un pennarello indelebile che, scaltri, ci eravamo già comprati), poi sulla ricevuta di carta.
Il funzionario stampa la ricevuta che recita 5277 rupie (una sessantina d’euro) ma, leggendotela ad alta voce, dice 5577 rupie. Non è un errore, bensì il metodo tradizionale di richiesta di mazzetta all’interno del post office. Tu sorridi, abbozzi e fai finta di non aver capito, gli lasci 5300 rupie dicendo di tenersi pure il resto, non c’è problema.
In quattro ore, per spedire un pacco da venti chili, abbiamo dato di che vivere a quattro pedalatori di riksha, un sarto, un cartolaio, un funzionario delle poste e Le Poste Indiane.
Lo chiamano disservizio? Io lo chiamo socialismo indiano.
Spedire un pacco. Operazione apparentemente semplice, una volta reperito un vecchio scatolone di bibite dal “supermercato” di Santiniketan, letargica cittadina a quattro ore da Calcutta, immersa nella campagna bengalese: da due anni, casa.