
Benvenuti di fronte al terrorismo 2.0.
Ciò che più colpisce, in riferimento all’ISIS, è come sappia maneggiare il più evoluto marketing (cross-mediale ed integrato) da multinazionale del terrore. Qualcosa che è emerso già dai primi video, di una tristemente lunga serie, di decapitazioni. Se ne è parlato commentando le luci, le inquadrature, le scelte di “regia” professionali, che segnavano un netto cambio di marcia rispetto ad Al Qaeda e ai predecessori, già protagonisti dell’ormai pluridecennale guerra asimmetrica all’Occidente.
Ma in questo contesto c’è una news ancora più inquietante che darebbe la percezione di un terrorismo capace di sfruttare i trend digitali del momento a suo favore, serpeggiando tra gli aggiornamenti (troppo lenti) dei sistemi normativi rispetto al progresso tecnologico. E’ da una fonte dell’intelligence israeliana, citata dal quotidiano “Haaretz” che emerge una pista relativa al mondo di bitcoin, che verrebbe utilizzato come canale per il finanziamento delle attività e come terreno di reclutamento (al pari dei social network).
Il punto di partenza dell’analisi sarebbe un sito internet rintracciato dall’analista israeliano che riporterebbe “concrete evidenze sul fatto che una cellula terroristica, sedicente affiliata allo Stato Islamico, includerebbe i bitcoins come parte delle sue azioni di fundraising”.
Un nuovo sistema particolarmente importante negli Stati Uniti e in tutti quei Paesi che hanno intensificato i controlli e rafforzato l’apparato di sicurezza in merito ai trasferimenti di denaro sospetti. Gli stessi social network hanno messo in campo svariati strumenti per la chiusura di profili collegati al terrorismo, ma mai come oggi l’anonimato di internet ed un nuovo livello di utilizzo della rete stanno rivelandosi terreni inesplorati nell’eterno inseguimento tra criminali (di qualsiasi natura) e forze dell’ordine.
Colpire l’ISIS significa, prima di tutto, chiudere i rubinetti dell’autofinanziamento con cui si sostiene. Ma si tratta purtroppo di un’operazione assai difficile, perché a differenza di Al Qaeda tale operazione richiede un monitoraggio complessivo di finanziatori e sostenitori singoli, simpatizzanti sparpagliati su tutto il globo. L’ISIS infatti si sostiene principalmente – da fonti americane – sulla vendita di petrolio sul mercato nero, ricevendo però supporto a livello globale.
Un tema controverso, che impensierisce gli Stati Uniti anche alla luce di recenti dichiarazioni attribuite ad un potenziale “comandante dello Stato Islamico” in Pakistan, Yousaf al Salafi, che avrebbe confessato alle autorità del paese di aver ricevuto fondi transitanti dagli Stati Uniti, per il reclutamento di giovani leve da inviare nei combattimenti siriani.
A questo proposito è Jimmy Gurulé (sottosegretario del Dipartimento del Tesoro sotto George W. Bush, professore di criminologia alla Notre Dame Law School ed esperto di terrorismo e intelligence finanziaria) ad intervenire sul tema.
I bitcoins come “canale di finanziamento del terrorismo” sono un argomento che è rimbalzato su diverse testate (soprattutto statunitensi) che ha creato allarmismo: in realtà negli USA non c’è un vuoto legislativo in materia, laddove si tratti di trasferimento di denaro a fini di finanziamenti attività terroristiche. Tuttavia è possibile che delle piccole falle nel sistema ci siano e che sia vero che anche su territorio americano vivano finanziatori del terrore (così come si è rivelato possibile, nel contesto occidentale, che svariate persone arrivassero ad arruolarsi e partecipare ad azioni collegate all’ISIS). Le preoccupazioni, però, non finiscono qui: non ci sono infatti garanzie sul fatto che gli aiuti (economici e di armamenti) inviati all’opposizione siriana “moderata” da parte degli Stati Uniti non finiscano in realtà in mano a gruppi estremisti attivi nel Paese.
Risulta evidente un profilo particolare del nuovo “soggetto terroristico” che domina purtroppo le scene internazionali: la diffusione di un fenomeno di massa non più strettamente geolocalizzato e forte di processi emulativi o di partecipazione soggettiva difficilmente arginabili. L’esempio dei bitcoins è valido sia come pista reale sia come – si è già azzardata anche questa ipotesi – depistaggio per rallentare e rendere più macchinose le operazioni di contrasto al finanziamento dei terroristi. Così come il concreto coinvolgimento del territorio statunitense come terreno di passaggio o di provenienza di finanziamenti. Rimane il fatto che ad alcuni combattenti ricollegati allo Stato Islamico siano state trovate armi di origine israeliana e che nell’incertezza generale ogni forma di complottismo collabori nel creare una confusione, se possibile, ancora maggiore.
Parliamo comunque di un bilancio di 2 miliardi di dollari, pubblicato, anche in questo caso con una mossa di corporate-branding degna del miglior marketing, in giro per la rete a garanzia di stipendi per i combattenti, sussidi a mutilati, orfani, vedove e quant’altro ci si possa immaginare nella finanziaria di un “Califfato” moderno, modellato sulla tradizione medioevale. Un business plan del terrore che comprende grandi opere come centrali elettriche e ospedali, che assomiglia alla pura propaganda ma che riecheggia ben lontano da Mosul (capoluogo del versante iracheno dello Stato Islamico dove la “Islamic Bank” è stata creata). Ecco dove vanno a finire i soldi dei riscatti che le nazioni occidentali pagano per i propri concittadini, ecco dove finirebbero le donazioni non solo dei grandi “sostenitori” qatarini, kuwaitiani e sauditi, ma anche appunto americani o addirittura virtuali, con il canale bitcoins: per non parlare delle tasse imposte alle popolazioni sottomesse ed al mercato nero.
A chi cerca di dare ancora una dimensione a questo fenomeno così lontano (eppur così vicino) non resta che seguire infinite e differenziate teorie, partendo dai dati “ufficiali” forniti da Abu Saad Al Ansari (sceicco dello Stato Islamico) con tanto di efficienza svizzera e surplus di 250 milioni di dollari per uno “Stato” che non ha confini riconosciuti, ed arrivando alla porta sotto casa, dove un insospettabile potrebbe girare parte del suo stipendio all’internazionale del terrore.
Eccovi esemplificato l’obiettivo di chi non vuole far dormire all’Occidente sonni tranquilli.
Benvenuti di fronte al terrorismo 2.0.