Il prezzo del petrolio è ancora oggi una delle più importanti variabili nell’economia globale. I “broker” sono Mosca, Riad, Teheran, Caracas e Washington.
La prima metà del 2018 ha ricordato ai mercati finanziari che la geopolitica è un fattore chiave per l’andamento dei prezzi del petrolio. Il crollo del regime venezuelano e le crescenti tensioni in Siria e Medio Oriente hanno fatto sì che i prezzi del Brent superassero i 70 dollari al barile. A seguito del ritiro di Washington dall’accordo nucleare con l’Iran il prezzo è salito fino a 80 USD/bbl. Benché sia difficile prevedere gli sviluppi della situazione geopolitica, è probabile che i mercati finanziari abbiano sopravvalutato l’impatto delle nuove sanzioni contro l’Iran sulle prospettive petrolifere globali.
Non è chiaro se la mossa di Trump influirà sulla produzione di petrolio iraniana (3,8 milioni di USD/bbl). Il Dipartimento del Tesoro Usa ha dichiarato di essere disposto a concedere un’esenzione dalle sanzioni agli acquirenti di greggio iraniano qualora “dimostrino il loro impegno a ridurre in misura sostanziale tali acquisti”, intendendo probabilmente una riduzione di almeno il 20%, oltre alla rescissione dei contratti per future forniture.
Se le esportazioni di petrolio iraniano verso l’Occidente dovessero diminuire, le economie asiatiche (soprattutto Cina e India) potrebbero assorbirle. Il contratto sul greggio denominato in yuan da poco siglato a Shanghai potrebbe aiutare l’Iran ad aggirare le sanzioni, che in genere vengono applicate quando le banche tentano di effettuare transazioni in dollari a New York. Di recente Pechino ha cominciato a importare greggio da Russia, Usa, Brasile, Angola e Malesia, ma un’improvvisa mancanza di domanda occidentale potrebbe spingere le raffinerie cinesi a rifornirsi in Iran.
Al tempo stesso l’OPEC ha affermato di disporre di risorse inutilizzate sufficienti a compensare un calo significativo della produzione iraniana. La nuova ondata di sanzioni potrebbe fornire all’OPEC+ (membri ed esterni che aderiscono all’accordo sulla produzione) un buon motivo per rimuovere o allentare i limiti produttivi concordati a giugno senza destabilizzare il mercato.
L’eccesso di offerta è stato quasi interamente assorbito. Lo scorso maggio la media mobile quinquennale delle scorte dell’OCSE ha evidenziato un’eccedenza di soli 30 milioni di barili. Di fronte all’aumento dei prezzi molti firmatari dell’accordo sono tentati di pompare di più e incrementare i proventi del petrolio. Il tasso di conformità agli accordi sui tagli alla produzione non è così alto come potrebbero suggerire le cifre ufficiali: a marzo ha raggiunto il 171% tra i produttori OPEC per via della crisi venezuelana e della manutenzione degli impianti in Algeria, e non solo grazie all’impegno reale dei membri. Tra i produttori esterni, invece, era pari all’87%.
Spetterà alla Russia e all’Arabia Saudita trovare un compromesso. Dati i prezzi e la prospettiva di un calo della produzione iraniana, Mosca vorrebbe revocare l’accordo e formalizzare il partenariato OPEC+. L’Arabia Saudita è più prudente e preferirebbe mantenere i tagli. Riad sostiene che la media quinquennale delle scorte dell’OCSE non sia un indice affidabile dell’eccesso di offerta, poiché comprende anni in cui le scorte erano estremamente elevate.
E poi c’è la geopolitica: sia Russia che Arabia Saudita trarrebbero vantaggio dall’aumento dei prezzi, ma a beneficiarne ancor più sarebbe Riad. L’IPO di Saudi Aramco dovrebbe avvenire tra meno di un anno e i sauditi hanno bisogno che il prezzo del Brent sia di 80 USD/bbl per pareggiare il bilancio pubblico (contro i 55 USD/bbl circa per Mosca). Inoltre la Russia, interessata all’IPO ma storicamente alleata con l’Iran, nemico di Riad, ha un atteggiamento ambivalente nei confronti di Saudi Aramco.
Su una cosa Mosca e Riad concordano: servono prezzi più bassi per contrastare la crescente concorrenza americana. Con prezzi del WTI superiori ai 70 USD/bbl anche i più costosi pozzi shale diventano redditizi. I fornitori di servizi petroliferi stanno inviando un numero crescente di squadre di fracking nei giacimenti di petrolio di scisto. Nell’immediato l’industria deve solo affrontare il problema dei trasporti e della carenza di manodopera.
Il calo dei prezzi del petrolio rischia di danneggiare alcuni produttori texani ma andrebbe a vantaggio dei consumatori americani. In questo modo l’Arabia Saudita aiuterebbe Trump a mantenere alta la pressione sull’Iran, senza paura di compromettere i benefici economici derivanti dal suo intempestivo stimolo fiscale. Sembra che gli Usa abbiano chiesto all’OPEC di aumentare le forniture di circa 1 milione di barili al giorno. Questo spiega perché i sauditi abbiano annunciato di voler aumentare la produzione durante un incontro con i loro omologhi russi a fine maggio a San Pietroburgo.
Il ritiro di Washington dall’accordo sul nucleare rischia di destabilizzare la geopolitica del Medio Oriente ma potrebbe avere un impatto limitato sull’offerta di petrolio mondiale e sui prezzi del Brent.
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Il prezzo del petrolio è ancora oggi una delle più importanti variabili nell’economia globale. I “broker” sono Mosca, Riad, Teheran, Caracas e Washington.