In un paese nel quale l’internet risulta censurato e controllato, la possibilità che alcuni dei siti vietati, vengano «liberati», scatena una sorta di competizione interna. Nei giorni scorsi infatti era uscita la notizia secondo la quale nella nuova zona di libero commercio di Shanghai si sarebbe potuto navigare liberamente su Facebook, Twitter e sul sito del New York Times. Tutti e tre i siti risultano al momento «spenti» in Cina, benché facilmente accessibili con una virtual private network. I due social network sono chiusi in Cina dal 2009, il sito del quotidiano americano è stato censurato nell’ottobre 2012 a seguito del reportage sulle ricchezze dell’allora premier cinese Wen Jiabao (un’inchiesta che è valsa al New York Times, il Premio Pulitzer).
La notizia della liberazione dei siti ha fatto subito il giro del mondo. Ad annunciarlo al mondo è stato il South China Morning Post, quotidiano di Hong Kong, attraverso il racconto di una fonte. Secondo la persona ascoltata dal quotidiano, per mettere a proprio agio i tanti uomini d’affari che arriveranno a Shanghai per la zona di libero commercio (che parte domani, anche se nessuno, come segnala oggi il Financial Times, ha ancora capito cosa davvero avverrà in quell’area) la Cina avrebbe accettato di rendere visibili i siti internet proibiti nel resto del paese.

Il giorno dopo è arrivata la smentita, via Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito comunista. La smentita è stata subito ripresa dal Global Times, spin off in inglese del Quotidiano del Popolo, mentre dal sito di quest’ultimo la notizia veniva stranamente eliminata. Gli esperti ritengono che nell’incertezza abbia ragione l’organo ufficiale del Partito, anche perché appariva piuttosto bizzarra un’apertura del genere proprio nel momento in cui una feroce campagna sta stringendo sempre di più le maglie dell’internet locale, con arresti e fermi ogni giorno.
Shanghai quindi, che si prepara a essere una rivale di Hong Kong – secondo molti analisti l’intenzione della Cina sarebbe proprio quella di fiaccare l’ex colonia britannica da un punto di vista economico – deve però vedersela con un’altra zona economica speciale cinese. Ovvero con Qianhai.
Secondo il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, la cittadina del sud cinese si può considerare una «mini Hong Kong», capace di attirare «circa 1700 aziende – il 70 per cento legata ai servizi finanziari – con capitale sociale di 200 miliardi di yuan (23 miliardi di dollari) a partire da metà settembre. Ci sono 20 aziende Fortune 500 registrate a Qianhai, tra cui HSBC, Hang Seng Bank e Standard Chartered».
Sembra però che molti investitori siano rimasti tiepidi di fronte alla prospettiva di muoversi a Qianhai, maggiormente allettati da Shanghai. Ed ecco la mossa per provare a rendere più attraente la propria offerta agli uomini d’affari stranieri: anche Qianhai annuncia che nella zona economica internet sarà libero. «A Qianhai, saremo in grado di vedere ciò che si può vedere a Hong Kong», ha detto Wang Jinxia, direttore del Centro ricerca e innovazione dell’Autorità di Qianhai, che sta curando la proposta della zona finanziaria da 45 miliardi di dollari, nel sud della Cina. «Ci impegneremo per un esclusivo canale di comunicazione internazionale in cui non saranno filtrate le informazioni», ha detto, aggiungendo che Facebook e Twitter saranno disponibili.
Almeno fino alla prossima smentita.
In un paese nel quale l’internet risulta censurato e controllato, la possibilità che alcuni dei siti vietati, vengano «liberati», scatena una sorta di competizione interna. Nei giorni scorsi infatti era uscita la notizia secondo la quale nella nuova zona di libero commercio di Shanghai si sarebbe potuto navigare liberamente su Facebook, Twitter e sul sito del New York Times. Tutti e tre i siti risultano al momento «spenti» in Cina, benché facilmente accessibili con una virtual private network. I due social network sono chiusi in Cina dal 2009, il sito del quotidiano americano è stato censurato nell’ottobre 2012 a seguito del reportage sulle ricchezze dell’allora premier cinese Wen Jiabao (un’inchiesta che è valsa al New York Times, il Premio Pulitzer).