Il Venezuela è “una minaccia per la sicurezza nazionale”: ecco la sintesi dell’ordine esecutivo lunedì da Barack Obama. Il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, ora flagellato da carestie, recessione e da una crescente insoddisfazione popolare, potrebbe essere una pentola prossima a scoperchiarsi e il Dipartimento di Stato non ha voluto trovarsi impreparato.
È la peggiore crisi diplomatica dall’insediamento del presidente Nicolas Maduro nel 2013, dopo la morte del populista, e popolare, Hugo Chávez. La settimana precedente Caracas aveva ordinato a Washington di ridurre il personale dell’ambasciata da 100 a 17 persone e imposto il visto per i turisti americani.
Non si “tratta di colpire la popolazione venezuelana”, ha spiegato alla stampa il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ma di “persuadere il governo a cambiare comportamento (…) Le corruttele dei funzionari del governo privano il paese di risorse economiche indispensabili”.
Una delle prime misura è , infatti, il congelamento dei beni negli Usa di sei alti funzionari del governo di Maduro per comportamenti che “che violano i diritti umani, vietano o penalizzano la libertà di espressione e si traducono in corruzione”, si legge nell’ordine esecutivo.
Washington sta dicendo a Maduro che se si ripetessero le violenze del 2014, che provocarono 43 morti e 357 feriti, o altri casi di la tortura, come quello del leader dell’opposizione Leopoldo Lopez, a pagare “per non avere evitato gli abusi”, saranno i membri del cosiddetto “ufficialismo”, il gruppo di potere che sorregge il presidente. Diversi membri sono stati accusati recentemente di corruzione, quando non di far parte o di beneficiare direttamente dei proventi del narcotraffico tramite il cartello Sole, che sarebbe diretto, secondo alcune accuse, da militari di alto rango.
I primi sei funzionari sanzionati, tra cui il capo dell’intelligence e quello della polizia nazionale, “non saranno più i benvenuti da noi e ora abbiamo gli strumenti per bloccare le loro attività e utilizzo dei sistemi finanziari statunitensi”, ha detto Earnest. Per Washington quest’ultimo punto è molto importante e non usa giri di parole: Venezuela è una minaccia per le attività illegali legate al narcotraffico. Le sanzioni quindi “aiuteranno a proteggere sistema finanziario Usa” da quei flussi di denaro illegale.
Il passo formale di dichiarare il paese caraibico una minaccia alla sicurezza nazionale fornisce, inoltre, a Washington gli strumenti per imporre ulteriori sanzioni. Lo stesso processo è stato già seguito con Iran, Siria, Birmania, Sudan e Yemen, tra altri paesi.
Caracas ha reagito subito. “il Venezuela deve essere pronto per evitare di diventare una Libia o un Iraq. Siamo un territorio di pace”, ha detto a reti unificate Maduro. “Non possiamo permettere che lo stivale yankee tocchi il Venezuela”. Mercoledì ha ordinato un “esercitazione militare difensiva speciali” per il 14 marzo e invitato il popolo a “unirsi alle Forze armate bolivariane”.
Le reazioni dell’opinione pubblica venezuelana sono state diverse. C’è chi ha ironizzato immaginando quanto gli Stati Uniti possono essere spaventati dall’esercitazione militare di un paese sull’orlo della bancarotta. Alcuni leader dell’opposizione, invece, come il governatore dello Stato di Lara, Henry Falcon, ha parlato invece di una “ingerenza irrispettosa”, che peraltro “fa un magro favore all’opposizione perché distrae il governo dalle questioni prioritarie”. Tra queste ci sono gli scaffali vuoti nei supermercati, gli ospedali senza medicine e il rischio di bancarotta nazionale.
“Utilizzando la figura del nemico esterno, l’imperialismo, il governo approfitterà per costruire una struttura legale più repressiva”, teme Edgard Gutierrez, della società di sondaggi Venebarometro.
Conosce la sua gente, Gutierrez: non erano passano 72 ore che il presidente Maduro chiedeva già all’Assemblea Nazionale poteri straordinari per affrontare la “minaccia degli Stati Uniti”. La “Legge abilitante antiimperialista” – che si approva con il 60%, esattamente la quota socialista – permette al capo dello Stato di governare per decreto per un anno su temi specifici. L’entourage chavista avrebbe così il controllo dell’agenda parlamentare e potrebbe approvare o respingere progetti di legge senza trattare con l’opposizione e senza quorum.
La mossa di Washington sembra voler fare uscire allo scoperto anche gli altri paesi latinoamericani e qualcuno vorrebbe già discuterla nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati americani. Cuba ha subito offerto al Venezuela “un appoggio incondizionato”. È la prima volta che Cuba si esprime contro gli Stati Uniti dall’inizio, a dicembre, delle trattative per la ripresa delle relazioni diplomatiche.
L’altra giocata della partita è il petrolio, che dal novembre scorso, per la prima volta, il Venezuela ha dovuto importare raffinato, mentre continua a essere il quarto fornitore di crudo delle raffinerie statunitensi. Gli Usa, loro volta, sono il principale partner commerciale del Venezuela. L’interdipendenza del settore petrolifero e gli altri interessi commerciali dovrebbero tenere questi settori fuori dalle sanzioni, dice la società di analisi finanziaria Eurasia.
Paradossalmente, la decisione degli Stati Uniti, la quintessenza del nemico, potrebbe il chavismo. Intanto gli fornisce una buona scusa per serrare le fila tra la dissidenza interna al Partito di governo e per alzare il volume della retorica, in questo caso antiimperialista, per coprire la drammatica situazione economica e di repressione che attraversa il paese. Oggi voterebbe per Maduro solo il 20-22% della popolazione, secondo i sondaggi.
“Dio provvederà” aveva detto a inizio d’anno Maduro dopo la brutale caduta dei prezzi del petrolio. Il tempo per un miracolo, tuttavia, si riduce di giorno in giorno.
Il Venezuela è “una minaccia per la sicurezza nazionale”: ecco la sintesi dell’ordine esecutivo lunedì da Barack Obama. Il paese con le maggiori riserve di petrolio del mondo, ora flagellato da carestie, recessione e da una crescente insoddisfazione popolare, potrebbe essere una pentola prossima a scoperchiarsi e il Dipartimento di Stato non ha voluto trovarsi impreparato.