Il viaggio del presidente di Taiwan alle Hawaii e la strategia dello status quo
Washington avrebbe indicato a Lai che l'unica opzione erano le isole del Pacifico. Andare alle Hawaii è considerato infatti meno sensibile di una visita negli Usa continentali, ma quasi certamente la Cina risponderà con nuove esercitazioni militari al ritorno di Lai il 6 dicembre.
2 dicembre 2016. Donald Trump accetta la telefonata di Tsai Ing-wen. Il presidente eletto degli Stati Uniti, meno di 50 giorni prima dell'ingresso alla Casa Bianca, riceve le congratulazioni della presidente taiwanese. È il colloquio ufficiale più alto in grado da quando i rapporti bilaterali tra Washington e Taipei sono stati recisi, vale a dire nel 1979.
L'episodio inquieta la Cina, che da lì in avanti alza le pressioni sull'isola che continua a rivendicare come parte del suo territorio. È forse quello il momento che mette in moto una serie di processi che si vedono ancora oggi, acuiti dalle rispettive manovre per testare le cosiddette linee rosse di tutte e tre le parti. Gli Stati Uniti non vendono solo armi, iniziano a mandarle. Eliminano le restrizioni autoimposte nelle relazioni con ufficiali taiwanesi e svolgono una serie di visite di alto livello, su tutte quella dell'allora presidente della Camera del Rappresentanti, Nancy Pelosi, che nell'agosto 2022 si presenta a Taipei.
La Cina non esercita solo la tradizionale coercizione diplomatica sui Paesi che continuano a intrattenere rapporti diplomatici con Taipei, ma inizia ad affilare il proprio arsenale normativo e militare, conducendo sempre più frequenti esercitazioni sullo Stretto. E poi Taiwan, che dopo l'approccio moderato di Tsai passa a una postura più assertiva su sovranità e identità con il presidente Lai Ching-te, entrato in carica lo scorso maggio. Tutte e tre le parti, insomma, sembrano in parte impegnate a erodere l'ambiguità strategica che ha consentito il mantenimento dello status quo finora.
2 dicembre 2024. Otto anni dopo quella telefonata, Trump è ancora una volta il presidente eletto. E Lai si trova alle Hawaii nel suo primo passaggio in territorio statunitense da quando è il leader. Ancora una volta, sembra di trovarsi all'alba di un potenziale nuovo cambio di passo sugli equilibri del luogo su cui si concentrano le attenzioni delle due più grandi potenze di questo inizio di terzo millennio. Già dalla scorsa estate si era iniziato a parlare di un possibile "transito", così come vengono etichettate queste visite che gli Stati Uniti definiscono "non ufficiali" per restare dentro un perimetro diplomatico consueto. D'altronde, non si tratta di un episodio così inusuale. Nei suoi otto anni da presidente, Tsai ha compiuto nove "transiti" su territorio statunitense, sempre durante delle visite ad alcuni dei 12 alleati diplomatici rimasti in giro per il mondo, concentrati soprattutto tra America latina e Pacifico meridionale. Il numero avrebbe potuto essere anche più alto, se non ci fosse stata la pandemia. L'ultima volta, Tsai è stata alle Hawaii nel 2019, mentre a Guam era stata nel 2017. Lai effettuerà invece un doppio transito in entrambi i territori sotto amministrazione americana. Quasi 48 ore alle Hawaii, prima di arrivare alle Isole Marshall il 3 dicembre e passare a Tuvalu il 4 dicembre. Previsto poi un passaggio a Guam il 5 dicembre, prima dell'ultima tappa del viaggio a Palau.
Lai aveva fretta di effettuare questo viaggio, per non terminare il 2024 (primo anno da presidente) senza visite internazionali. Secondo quanto risulta, Washington avrebbe indicato a Lai che l'unica opzione erano le isole del Pacifico e non una tappa sul "continente". Andare alle Hawaii è considerato meno sensibile di una visita sul "continente", anche se a Honolulu e dintorni c'è anche la sede del comando Indo-Pacifico dell'esercito statunitense. Sulle tempistiche, però, ha alla fine avuto ragione Lai. L'indicazione iniziale era quella di un viaggio a metà gennaio, in occasione dell'insediamento del presidente di Palau, evento che offriva una "scusa" di agenda diplomatica più concreta. Ma Lai non voleva sforare al 2025, soprattutto ai giorni immediatamente precedenti all'insediamento di Trump, quando presumibilmente tutte le attenzioni sarebbero state sulla Casa Bianca.
C'è anche una logica interna. Per la prima volta, un presidente taiwanese ha un predecessore dello stesso partito, di cui dunque non può squalificare o criticare le mosse o i viaggi internazionali. Nonostante siano entrambi esponenti del Partito progressista democratico (DPP), non è un mistero che in passato Lai e Tsai non si siano per niente amati. La ex presidente è molto attiva, grazie anche all'assenza di incarichi ufficiali che le rende più semplice ottenere il via libera dei Paesi ospitanti. Tsai è reduce da due viaggi in Europa e in Canada e prossima a una nuova visita negli Stati Uniti. Lai aveva bisogno di fare a sua volta qualcosa.
In passato, la Cina ha sempre condannato i transiti dei presidenti taiwanesi. Celeberrimo il caso delle esercitazioni e lancio di missili che diedero vita alla terza crisi sullo Stretto del 1995-1996, dopo che gli Usa accolsero il primo presidente democraticamente eletto a Taiwan, Lee Teng-hui. Più di recente, sono state inviate invece ampie esercitazioni militari nell'aprile 2023, dopo l'ultimo passaggio negli Usa di Tsai. Si trattava però di un caso particolare. Arrivava infatti dopo il "nuovo status quo" creato dalla visita di Pelosi. E, soprattutto, nel suo doppio transito Tsai ha anche incontrato proprio il successore di Pelosi, Kevin McCarthy. Resta da capire in questo caso quale sarà l'agenda di Lai e chi andrà a incontrarlo.
Nel 2019, Tsai alle Hawaii era stata ricevuta da un alto ufficiale dell'esercito americano e aveva visitato l'agenzia di gestione delle emergenze e il centro di risposta ai disastri. Le voci di colloqui al comando dell'Indo-Pacifico non sono mai state ufficializzate. Da vedere se questo accadrà invece con Lai, che potrebbe anche annunciare l'intenzione di acquistare un vasto pacchetto di armi nei prossimi mesi. Mossa che sarebbe finalizzata all'alba del secondo mandato di Trump, proprio per ingraziarsi il tycoon che ha più volte criticato Taipei, chiedendo un aumento delle spese di difesa.
Ma la sensazione è che la Cina risponderà in ogni caso. Da quando si è insediato Lai, il Partito comunista ha comunicato più volte il suo malcontento per Lai, definito un "secessionista radicale". Assai rilevante che, durante l'ultimo recente incontro a Lima con Joe Biden, il presidente cinese Xi Jinping abbia menzionato esplicitamente Lai. Circostanza assai inusuale. Motivo? Pechino vuole incanalare la responsabilità di tutte le tensioni sul leader taiwanese, personalizzando dunque i problemi esistenti. La logica è doppia. Sul piano interno, si vuole segnalare che la "riunificazione pacifica" è un obiettivo ancora possibile, intralciato al momento da un singolo e dal suo partito piuttosto che da tutta la società taiwanese. Sul piano internazionale, serve invece a giustificare eventuali azioni coercitive. Difficile dunque attendersi un trattamento da "business as usual" per il doppio transito di Lai.
È ritenuto probabile che Pechino dia il via a un nuovo round di esercitazioni militari, dopo il rientro di Lai a Taipei, previsto per il 6 dicembre. Sarebbero le terze manovre nel giro di sette mesi, dopo quelle di maggio in reazione al discorso di insediamento di Lai e quelle di ottobre in risposta al primo discorso in occasione della festa nazionale della Repubblica di Cina. Mentre nei due casi precedenti le logiche erano quasi esclusivamente interne e intrastretto, stavolta le possibili esercitazioni "Spada Congiunta 2024 C" avrebbero come destinatario anche gli Stati Uniti. E in particolare Trump, con la Cina che marcherebbe ancora una volta il territorio prima del suo insediamento per rendere chiaro che su Taiwan non è possibile negoziare.