
Futuro critico per l’Autorità nazionale palestinese: problemi di finanziamenti, critiche al modello di cooperazione con Israele e crisi di leadership.
Nelle stanze della diplomazia internazionale echeggia la marcia funebre degli Accordi di Oslo. A suonarla è anche chi di quegli Accordi fu la sospirata ma controversa creatura e in questo momento storico vede emergere la propria crisi d’identità.
L’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) nacque per effetto della storica intesa del 1993, che fu siglata da Yasser Arafat, col premier israeliano Yitzhak Rabin, e che quasi 25 anni dopo è stata proclamata morta dal suo successore Mahmoud Abbas.
Nel constatarne la fine, a Ramallah si punta il dito contro Israele per l’invasiva politica di insediamenti nei Territori Palestinesi e contro gli Usa che, dichiarando Gerusalemme capitale del solo Stato ebraico, hanno smesso i panni del mediatore, orgogliosamente esibiti negli Anni 90. Ma se è vero che l’allontanarsi della soluzione a due Stati entro i confini del 1967 rende gli Accordi di Oslo – che poggiano su quella base – ogni giorno meno attuabili, anche la Anp vede stagliarsi all’orizzonte un futuro tutt’altro che roseo.
Il problema più intricato riguarda il dualismo identitario della Anp. Secondo quanto stabilito dall’“Accordo ad interim sulla Cisgiordania e la Striscia di Gaza”, conosciuto come Oslo II, l’Anp si configura come un organo di autogoverno, chiamato tuttavia a coordinarsi con Israele su una serie di questioni, sicurezza in primis.
Nel corso degli anni questo coordinamento è stato contestato tanto dai cittadini palestinesi (secondo un sondaggio del quotidiano Al-Quds il 94% è contrario), quanto dai vertici di Hamas, l’organizzazione paramilitare islamista che controlla la Striscia di Gaza.
Nel luglio 2017, sull’onda delle proteste esplose a Gerusalemme per l’installazione dei metal detector all’ingresso della Spianata delle Moschee, l’Anp annunciò la sospensione del coordinamento, salvo tornare sui propri passi poche settimane dopo: un episodio che lascia intendere come sul lungo termine questa strada non sia percorribile. “Strappare con Israele sul tema della sicurezza”, spiega il giornalista e attivista palestinese Daoud Kuttab, “metterebbe in pericolo il governo di Ramallah, tollerato da Tel Aviv nella misura in cui garantisce collaborazione”.
L’impossibilità di tagliare i ponti con l’ingombrante vicino non è questione solamente ideologica, ma stride anche con la nuova narrativa di cui Fatah, il partito che amministra la Cisgiordania guidato da Abbas, ha iniziato a farsi portatore. “Per non perdere il controllo sulla piazza, il partito del presidente sta cambiando modo di parlare ai palestinesi”, dice Belal Shobaki, capo del dipartimento di Scienze politiche all’Università di Hebron. “Fatah sta adottando una nuova retorica, più vicina a quella di Hamas e imperniata sui concetti di lotta e resistenza”.
È un dualismo carico di conflittualità quello che consuma al suo interno l’Autorità Palestinese: da una parte il legame difficilmente scindibile con Israele, dall’altra la sempre più intensa spinta centrifuga delle forze che la compongono. E tra i due fuochi si è consumato inesorabilmente il consenso di Abbas, di pari passo con la fiducia della popolazione nell’apparato statale controllato dai suoi fedelissimi.
Secondo il think tank indipendente Palestinian Center for Policy and Survey Research, il 70% dei cittadini non approva l’operato del presidente dell’Anp, il 77% ritiene le istituzioni corrotte e, se leader vecchi e nuovi si presentassero oggi alle elezioni, a vincere sarebbe Marwan Barghouti, esponente di Fatah detenuto dal 2002 in Israele, che per le sue battaglie dietro le sbarre s’è guadagnato nel mondo arabo l’appellativo di “Mandela palestinese”.
Gode di meno consensi popolari (specie in Cisgiordania) però è spinto da potenti attori esterni un altro uomo che del partito è stato esponente di spicco, Mohammed Dahlan, inviso ad Abbas e in esilio negli EAU, ma costantemente al lavoro per preparare il terreno a un ritorno in Palestina. Nel febbraio scorso a Ramallah ha fatto molto rumore un incontro tenutosi al Cairo tra una delegazione di suoi fedelissimi e i vertici di Hamas, che in questi mesi hanno visto impantanarsi l’accordo di pace con Fatah, le tensioni sono culminate nelle accuse incrociate per il fallito attentato di marzo al premier dell’Anp Rami Hamdallah.
Dahlan, che partecipò attivamente all’implementazione degli Accordi di Oslo e nella Striscia, è stato capo della sicurezza sotto Arafat, viene visto oltreconfine come uno dei pochi in grado di riavvicinare Gaza a Ramallah. A sospingerlo, un fronte di Paesi sunniti che puntano, nel medio-lungo periodo, ad aumentare la propria influenza sull’Anp e, al tempo stesso, ad allontanare dall’orbita sciita Hamas, corteggiata da Iran e Hezbollah in chiave anti-israeliana: gli Emirati Arabi, ma anche Arabia Saudita ed Egitto.
Per rintuzzare la rincorsa dei rivali, Abbas, 83 anni e uno stato di salute precario, ha già iniziato a tirare la volata per la successione al fedelissimo Mahmoud al Aloul, nominandolo suo vice nel partito. Cittadini palestinesi e potenze regionali, però, spingono per un cambiamento più drastico. E l’onda lunga di un mutato assetto negli equilibri interni all’Anp, oltre ad avere rilevanti ripercussioni geopolitiche, potrebbe arrivare a interessareanche l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che offre assistenza a circa 5 milioni di rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente e che, se gli Usa confermeranno la stretta sui finanziamenti messa in atto a inizio 2018 (da 125 a 60 milioni di dollari), rischia di restare presto a secco, a meno che altri donatori non entrino in gioco. Nello specifico, quei Paesi arabi che attualmente contribuiscono al 3,5% del budget, a fronte del 25% Usa.
Un’accresciuta influenza politica porterebbe con sé una maggiore generosità in termini di aiuti economici, ed entrambi i fattori, nelle intenzioni dell’Arabia Saudita, rientrerebbero nella cornice di una rinnovata prospettiva negoziale.
Per Riad gli Accordi di Oslo appartengono al passato. Come riportato dall’analista dell’Ispi Eugenio Dacrema, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman lavora con gli Usa a un piano che prevede, oltre a Gerusalemme capitale d’Israele, la costituzione di un’entità palestinese a sovranità limitata (priva, ad esempio, di uno spazio aereo) su un territorio ridotto rispetto a quello del ’67 e l’eliminazione del diritto al ritorno per i suoi milioni di rifugiati.
Che la base per le future trattative sia questa o venga scelta un’altra impalcatura, la certezza è che rispetto a quelli del 1993 si tratterà per i palestinesi di accordi al ribasso, più vicini a una realtà attuale complicata da accettare quanto da cambiare.
Nei piani delle potenze al tavolo, il cerchio magico diAbbas passerà, non l’Anp, che forse vedrà ridurre lo scollamento tra il contesto in cui operare e la situazione a cui tendere, ma rischia di fare i conti con un malcontento popolare maggiore di quello attuale. E con nuove, pericolose crisi d’identità.
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