
I nuovi mezzi di partecipazione – i social media – mutano il profilo stesso dell’individuo, che diventa meno individualista e più collettivo. Siamo vicini alla completa disintermediazione della stampa tradizionale.
Chi sono i giovani? Cosa fanno online? È vero che leggono sempre meno? Ma che, grazie ai social, sono impegnatissimi in conversazioni politiche? È vero che non comprano più giornali, che non leggono libri, che sono sempre nei loro smartphone? E se usano costantemente gli smartphone, come fanno a essere impegnati politicamente?
Se una persona interessata alla politica apre il suo Facebook, l’algoritmo che governa il social network mostra a quella persona condivisioni che le interessano. Il video di un ragazzino che fa un lungo intervento a un incontro pubblico e “demolisce un ministro” (questo il linguaggio con cui, di solito, giornali e condivisioni sui social riportano questi contenuti), la storia della giovane iscritta a un partito che si è inventata un’hashtag su Twitter. È una bolla di conversazione e non da alcuna informazione.
Si può provare a estendere la ricerca oltre il proprio cerchio di prossimità. Proviamo a dare un’occhiata in Italia, in maniera empirica. La pagina dei Giovani Democratici ha 15mila like. Il 31 maggio ha annunciato, con un post su Facebook, la nascita dell’associazione “Primavera degli Studenti”. Nel post si legge che gli obiettivi dell’associazione provengono dal desiderio condiviso di non lasciare isolate le varie esperienze locali ma “metterle in contatto e ritrovare quel collettivo nazionale di cui ha bisogno la partecipazione studentesca dei Giovani Democratici”.
Il Movimento 5 Stelle ha una sua pagina “giovani” su Facebook: sembra poco frequentata, ma non fa testo, perché è proprio dal web che prende le mosse una delle attuali forze di governo italiane.
La pagina Facebook ufficiale ha 1,5 milioni di like. Il post su Facebook del MIUR che annuncia il convegno “Giovani, politica e istituzioni nel pensiero di #AldoMoro” ha 60 reazioni, 9 condivisioni, 5 commenti.
Sono elementi sufficienti? Sono numeri interessanti per suggerirci che la partecipazione giovanile sia in aumento? E’ sufficiente che certe spinte nascano dal web per dire che i giovani ci sono, in politica? Basta individuare conversazioni su temi “impegnati” e misurare la quantità di tweet su un determinato argomento?
La risposta è: purtroppo no. C’è bisogno di indicatori concreti, dati, numeri e di analisi scevra da pregiudizi. Anche perché, altrove, questa partecipazione non viene rilevata.
Già nel 2009, Mark Fischer scrive nel suo Capitalism Realism: Is There No Alternative?: “A differenza dei loro predecessori degli anni ‘60 e ‘70, oggi gli studenti britannici sembrano essere politicamente disimpegnati. […] Io credo che non si tratti né di apatia, né di cinismo; piuttosto è quella che chiamo impotenza riflessiva. Gli studenti sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività non è l’osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera”.
Il referendum per la Brexit ci sarebbe stato solamente 7 anni dopo, come sappiamo. E sappiamo che i giovani (indicati come i veri sconfitti dall’esito della consultazione), semplicemente si sono chiamati fuori: almeno i 2/3 dei giovani aventi diritto non hanno votato al referendum.
Eppure si è parlato di youthearthquake – al punto che l’Oxford Dictionary l’ha scelta come parola dell’anno 2017. La parola dell’anno 2016 era post-truth – dopo le elezioni nel Regno Unito e la rinascita dei laburisti con Corbyn. Ma sarebbe più corretto parlare di “giovani adulti” non di giovani: i dati hanno dimostrato, al netto di narrazioni, speranze e parole dell’anno, che il voto è aumentato nella fascia 25-45, non in quella under 25. D’altro canto, anche l’esperienza di Podemos, in Spagna è stata in qualche modo “tradita” proprio dall’astensionismo fra i 18 e i 40 anni.
Il professor Dario Tuorto è autore di L’attimo fuggente. Giovani e voto in Italia, tra continuità e cambiamento, e Professore associato nel Dipartimento di Scienze dell’Educazione Giovanni Maria Bertin dell’Università di Bologna. Utilizza, per misurare la partecipazione giovanile, proprio quel dato che potrebbe sembrare in qualche modo “vecchio”: il voto.
I motivi? Primo: la partecipazione al voto dei giovani è poco analizzata, proprio perché si preferisce concentrarsi sulle forme di partecipazione fuori dagli spazi istituzionali.
Secondo: soprattutto in occasione degli appuntamenti più importanti (come il rinnovo del parlamento o l’elezione del presidente della Repubblica), il voto continua comunque a rappresentare il comportamento atteso nelle democrazie occidentali. E, nonostante la scarsa capacità del singolo voto di essere decisivo, nella maggior parte dei paesi i votanti sono ancora la maggioranza degli aventi diritto.
Terzo: la partecipazione al voto è un indicatore che si riesce a rilevare in modo più continuo ed è anche quello più affidabile.
“Certo, si potrebbero considerare, per esempio le manifestazioni di piazza, o adesioni a gruppi non formali e istituzionali”, spiega Tuorto, “ma poi quando lo scenario cambia si perdono i riferimenti: sono misurazioni poco stabili nel tempo. Il problema è poi anche tradurre in termini politici questi spazi. Se ne sono sicuramente aperti di nuovi, rispetto al passato: a volte rappresentano identità collettive di partecipazione, anche su singoli temi. Il fatto è che si può tranquillamente aderire a questi spazi di partecipazione e, contemporaneamente, non porsi assolutamente il problema di quale partito votare, per esempio. O non pensare a tradurre questa azione partecipativa verso la politica tradizionale e istituzionale. Il che non aiuta il cambiamento. È calata la partecipazione tradizionale, rimasta appannaggio di alcuni gruppi fortemente politicizzati e concentrati perlopiù nelle città, nei contesti universitari, ma non sono cambiati granché i numeri. Forse la partecipazione è aumentata in senso più generico, su singoli temi, su singole campagne. Il tema dell’immigrazione e del lavoro sociale, per esempio, è diventato un tema rilevante ma parliamo sempre di fenomeni minoritari. C’è il vasto mondo culturale associativo, ambientalista, sportivo ma è difficile da classificare: alcune partecipazioni ci sfuggono addirittura”.
Il fatto è che l’essere giovani ha una serie di implicazioni che vanno al di là di ogni tentativo di categorizzazione. Lo spiega bene il sociologo Jorge Benedicto(5) quando scrive, fra l’altro, che la gioventù è una fase di instabilità e di posizionamento periferico nelle reti sociali. L’interesse per la politica aumenta in maniera naturale con l’età e con la transizione verso la vita adulta e l’integrazione sociale, in quanto è nella transizione all’età adulta che le decisioni prese nella fase istituzionale cominciano ad avere effetti percepiti sui propri interessi.
Eppure ci sono spazi di conversazione online, spazi in cui sembra si parli di politica più del solito.
Probabilmente bisognerebbe passare da un concetto di impegno e partecipazione a un concetto che dobbiamo prendere a prestito dal web marketing e che dobbiamo tradurre dall’inglese engagement, come coinvolgimento. Il vero problema di questo spostamento d’attenzione è che l’engagement non è facilmente misurabile in termini quantitativi ma piuttosto in termini qualitativi. Non solo: lo spostamento presenta anche grossi problemi di definizione.
Che cosa significa davvero engagement? E che effetti ha, poi, sulla componente istituzionale della politica? Un focus group condotto da MDPI in Portogallo e Regno Unito ha tentato di concettualizzare in qualche modo l’engagement politico dei giovani, senza rilevare particolari differenze fra le due nazioni. Ma con grande difficoltà, perché le opinioni dei partecipanti si discostano molto addirittura nel definire questa forma di partecipazione. Per esempio: condividere foto sui social che sostengono una determinata causa indica impegno politico? Per alcuni sì, per altri, invece, i loro coetanei che adottano questo tipo di comportamenti stanno semplicemente seguendo le tendenze e non necessariamente comprendono il significato di queste azioni. Per alcuni la semplice ri-condivisione su Facebook è sinonimo di interesse politico attivo. Per altri è solo imitazione.
Imitazione che potrebbe addirittura tradursi in disimpegno.
Come orientarsi, allora, se non si riesce nemmeno a trovare un terreno comune in termini di definizioni?
Tuorto ci viene ancora in soccorso: “Sicuramente ci vuole attenzione per questo fenomeno ma ci sono aspetti più importanti. I giovani che hanno poca affinità col mondo dei partiti e non sono interessati a quel mondo potrebbero trovare, con internet, i loro spazi: sono proprio loro che possono trarre più vantaggi dalla partecipazione in rete. Che però pone problemi in numero ancora maggiore perché aumenta le disparità: chi ha più risorse riesce a partecipare di più. È uno strumento ma non va enfatizzato”.
Ecco il punto, allora. Che forse non dovremmo preoccuparci così tanto dei giovani ma degli esclusi:
“Quella che sta crescendo un po’ ovunque, in generale, in effetti, è la mancata partecipazione delle fasce escluse, che non sono solo giovani. Sono quelle persone che per varie ragioni perdono contatti con la politica: persone con bassi titoli di studio, fuori dal mondo del lavoro, che provengono da situazioni svantaggiate. In una fase di disaffezione collettiva, generalizzata, sono quelli che subiscono di più. I giovani sono solo una delle componenti di questo fenomeno”.
Non solo: “L’ingresso in politica rischia di essere monopolizzato dal mercato. Questo perché si usano strumenti non razionali per avvicinare, non conoscitivi, ma semplicemente affettivi, emotivi, di suggestione”.
E in questo la rete è regina, per velocità e quantità, per facilità di diffusione dei messaggi politici e per responsabilità della politica stessa.
“D’altro canto, cultura partecipativa” – spiegano i Wu Ming su Giap – “non è sinonimo di “web 2.0” e nemmeno di “prodotti interattivi”. “Web 2.0” è un modello di business, “interattività” è una dimensione pre-determinata e pre-incorporata dall’industria nei suoi prodotti, mentre la partecipazione nasce dal basso. Jenkins dice (e la definizione ci sembra davvero significativa): “La cultura partecipativa è la storia delle lotte sulle diverse piattaforme mediali”.
Un’altra ragione per guardare con un po’ di sospetto a chi pensa che la dimensione partecipativa si possa svolgere tranquillamente su quelle piattaforme che Morozov ha intelligentemente criticato smontando l’llusione del “soluzionismo tecnologico”.
E allora, forse, ci stiamo facendo le domande sbagliate. Benedicto scrive ancora: “Invece di continuare a discutere se la gioventù di oggi sia scollegata, scettica o, al contrario, rappresenti un’alternativa, dovremmo cominciare a pensare che la maggior parte dei giovani è tutte e tre le cose contemporaneamente”. E dovremmo cominciare a preoccuparci di dare a questi giovani gli strumenti per orientarsi in un mondo che la rete, con tutti i suoi pro e i suoi contro, rende più complesso.
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