Il vertice APEC ha portato i leader di Cina e Giappone dopo quasi due anni di tensioni e frecciatine a distanza a pochi centimetri l’uno dall’altro. Le cose non sono andate come forse qualcuno si immaginava – tutto sorrisi, strette di mano e pacche amichevoli sulle spalle.

Tutto l’opposto. I due uomini, capello perfettamente impomatato e aria serafica l’uno, il mastro cerimoniere Xi Jinping, faccia da chi sa che non può fare l’ennesima figuraccia – per di più su un palcoscenico di quel tipo, con milioni di occhi cinesi e coreani addosso – l’altro, l’ospite giapponese Shinzō Abe, si sono stretti freddamente la mano in quella che almeno in Europa e America è passata alla storia come la “stretta di mano più strana” tra due capi di governo
Almeno in Giappone, però, la percezione è stata diversa. L’incontro è stato definito “il primo passo” verso un cambiamento nelle relazioni bilaterali con il vicino cinese.
“Cina e Giappone considerano l’uno essenziale per l’altro”, ha spiegato Abe. “Per quanto si tenti di troncare i rapporti, questi non potranno mai essere cancellati”.
“Tutto ciò va di pari passo con la questione del Mar cinese orientale – ha aggiunto il premier nipponico – dove negli ultimi anni si sono verificati episodi di tensione (…) Ho fiducia nel fatto che al di là di tutti i problemi che si sono fin qui presentati, riusciremo a trovare politiche di risoluzione adatte attraverso un confronto diretto e alla pari tra i leader dei due paesi”.
Tanta buona volontà si è però scontrata con il “muro” di freddezza di Xi Jinping. Che, su quotidiani e tv giapponesi, non è passata inosservata.
Nella sequenza ripresa dalle telecamere, si vede distintamente il premier giapponese dire qualcosa opportunamente tradotto all’orecchio del presidente cinese. Dalle ricostruzioni delle tv nipponiche, una frase di circostanza: “Grazie dell’invito, sono onorato di essere qui”, avrebbe detto Abe. Nessuna risposta di Xi, che si gira verso i fotografi senza muovere nemmeno un muscolo facciale.
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Lo Asahi Shimbun, uno dei principali quotidiani nipponici, ha perciò definito l’incontro “muto” (mugen) e “senza sorrisi” (egao naki), a indicare che le tensioni sottopelle non si stemperano certo con una stretta di mano a beneficio della stampa.
Tutto meno che “awkward”, “strano”.
Troppi sorrisi da parte cinese non sarebbero andati giù a gran parte dell’opinione pubblica locale, vista, d’altro canto, la mancanza di disponibilità dei vertici giapponesi a rinunciare ufficialmente alle visite al santuario Yasukuni.
Come ha poi opportunamente sottolineato il Wall Street Journal, anche a Pechino si è seguito un pattern ricorrente nella storia recente delle relazioni Tokyo-Pechino. I capi di governo sembrano non poter fare altro che scambiarsi frasi di circostanza e strette di mano a distanza di sicurezza. Successe nel 2010 tra Hu Jintao e Naoto Kan e ancora prima ancora tra Hu e Junichiro Koizumi.
Per avere una migliore chiave di lettura, in questi casi, bisogna guardare a cosa succede “dietro le quinte” dei vertici di questo genere.
Con 4 giorni d’anticipo sull’incontro Abe-Xi, Shotaro Yachi, Consigliere per la sicurezza nazionale di Tokyo, e Yang Jiechi, Consigliere di Stato e capo della diplomazia di Pechino, hanno siglato un accordo in quattro punti in cui si riconoscono reciproche divergenze sulle isole Senkaku/Diaoyu e, allo stesso tempo, un impegno per il futuro a risolvere i problemi per canali diplomatici. I due, di sicuro, non passeranno alla storia per strette di mano o meme virali. Grazie a loro però qualcosa, dopo più di due anni di continue tensioni, si è mosso.
Alcuni studiosi di relazioni internazionali del Giappone usano il termine “nemawashi”: diplomazia “a partire dalle radici”, di cui gli incontri immortalati e che rimangono nella storia – come quello tra Xi e Abe – sono solo l’ultima appendice. E nemmeno la più importante.
Vista così – e peccato per la scarsità di analisi in questo senso – forse, quella stretta di mano non è poi tanto “strana”.