Il primo incontro fra Talebani e Usa per sondare la fattibilità di negoziati è una svolta storica. Gli americani ammettono di essere un attore della guerra afghana e riconoscono legittimità politica ai Talebani. Ma senza accordo regionale Trump non farà passi avanti e Mosca può approfittarne
Alla fine di luglio, alcuni rappresentanti del movimento talebano si sono incontrati a Doha, in Qatar, con Alice Wells, la più alta rappresentante dell’amministrazione Trump per gli affari asiatici e vice del segretario di Stato Usa, Mike Pompeo.
La notizia dell’incontro, il primo del genere dopo molti anni, è stata celebrata come un’occasione storica: i Talebani e il governo degli Stati Uniti finalmente si parlano per mettere fine alla guerra con un negoziato. Una novità importante e un passo necessario, ma insufficiente, per garantire che la pace tanto desiderata dalla popolazione diventi realtà.
Decidendo di sedersi al tavolo negoziale con i Talebani, anche se ancora in forma implicita e non ufficiale, gli Stati Uniti fanno una mossa cruciale per risolvere la lunga guerra afghana. Ammettono, infatti, di essere un attore del conflitto a tutti gli effetti, cosa finora perlopiù negata. E allo stesso tempo riconoscono ai Talebani la patente di legittimità politica tanto agognata.
Il fatto che l’incontro si sia tenuto proprio a Doha, in Qatar, è un ulteriore segno che l’amministrazione Trump fa sul serio: a Doha i Talebani hanno il loro Ufficio politico, inaugurato nel giugno 2013, dopo una laboriosa attività diplomatica internazionale, ma subito fatto chiudere dall’allora presidente Karzai, al quale non andava giù l’idea che gli studenti coranici presentassero quell’Ufficio come una vera e propria rappresentanza diplomatica dell’Emirato islamico d’Afghanistan. Come a dire che il governo legittimo afghano era il loro, quello spodestato nel 2001 dai bombardieri americani, e che l’amministrazione insediata a Kabul era invece illegittima, una semplice paretensi in attesa che venisse ripristinato lo status quo ante.
Negli anni successivi, i Talebani hanno sempre ribadito che per ogni richiesta di contatto bisognava passare per l’Ufficio di Doha. Così ha deciso di fare l’amministrazione Trump, inviando a fine luglio Alice Wells.
Cosa si siano detti gli americani e i Talebani non è dato sapere. Si tratta di colloqui preliminari, utili a capire se ci sono le condizioni per un negoziato vero e proprio. Per i Talebani si tratta comunque di un successo. In tutti i comunicati ufficiali dal 2001, hanno ripetuto il ritornello che avrebbero negoziato soltanto con Washington, il più importante e influente attore del conflitto, e non con Kabul, ritenuto subalterno al partner statunitense.
Il 16 giugno, durante l’eccezionale tregua di tre giorni di cui abbiamo scritto qui, hanno ottenuto un secondo successo: il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha dichiarato di essere pronto a negoziare anche la presenza delle truppe straniere nel Paese, questione centrale per i barbuti. Per loro, prima di parlare con il governo ora presieduto da Ashraf Ghani, principale artefice della tregua di tre giorni, occorre mettere in chiaro con gli americani queste due questioni: il ritiro delle truppe e il riconoscimento dell’Ufficio politico come organo di rappresentanza ufficiale. Aspirano, dunque, a un accordo come quello raggiunto a Ginevra nel 1988 tra gli afghani e i sovietici che allora occupavano il Paese.
Fin qui, l’amministrazione Trump potrebbe anche spingersi. Ma il presidente Usa resta un interlocutore difficile, incoerente, imprevedibile, mentre i Talebani cercano certezze. Anche Ashraf Ghani, il tecnocrate alla guida del governo di unità nazionale fortemente voluto dall’allora segretario di Stato Usa John Kerry, ha bisogno del sostegno di Trump ma ne teme le politiche intermittenti.
Ghani sa che affinché i Talebani accettino di parlare con i suoi emissari prima devono farlo con gli americani ma ha paura di essere tagliato fuori dai negoziati. Questo nonostante i suoi rapporti siano ancora buoni con Washington, a differenza di quelli del suo predecessore, Hamid Karzai, che durante l’ultimo mandato aveva fatto dell’anti-americanismo una sorta di bandiera politica per rifarsi dalla precedente subalternità atlantica.
Rimane, poi, almeno un’altra questione, più centrale delle altre. Per ottenere la fine del conflitto non basta che i Talebani parlino e trovino un accordo con Washington e Kabul, serve un accordo regionale, come ha spiegato bene nei giorni scorsi Barnett Rubin, tra i più autorevoli conoscitori del Paese.
Per ora questo accordo non c’è. Lo dimostra la dichiarazione del 16 luglio con cui Mosca ha detto di voler invitare al tavolo negoziale i Talebani prima dell’estate, dando seguito a una serie di colloqui inaugurati nel dicembre 2016 che includevano Cina, India, Iran e Pakistan, oltre ai russi, organizzatori dei colloqui. La notizia non è stata presa bene a Washington, dove si ritiene che l’unico processo negoziale legittimo sia quello guidato dagli Stati Uniti in accordo con il governo di Kabul.
Affinché sia realmente efficace, la strategia diplomatica americana dovrà però passare per il consenso regionale. La fine della guerra dipende dal tempo che Trump impiegherà a comprendere che, per uscire dal pantano afghano, Washington nella regione ha bisogno di alleati e non di nemici.
@battiston_g
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