L’incriminazione a Washington di tre aziende e 13 cittadini russi apre una finestra sull’industria delle fake news e i suoi più talentuosi professionisti, assoldati da una misteriosa azienda di San Pietroburgo
Il fascicolo di 37 pagine contiene le accuse più dirette e circostanziate dall’inizio delle indagini sul cosiddetto Russiagate. Gli imputati avrebbero cominciato a interferire con la campagna elettorale già dal 2014, non solo online, ma da parte di individui che, attraverso il furto di identità, si sono finti cittadini americani e hanno preso contatto con lo staff elettorale di Donald Trump.
Il grosso dell’attività, comunque, consisteva nella creazione di numerosi account Twitter o gruppi Facebook dalla Russia che però apparivano come appartenere a gruppi di cittadini americani, alcuni anche con più di 100mila follower. Un’inchiesta del canale russo Rbk ne ha contati più 120 con oltre sei milioni di iscritti che sono stati poi bloccati dalle società che gestiscono i social media. Tra questi c’erano il gruppo di destra “Heart of Texas”, quello religioso “United Muslims of America” e quello di attivisti di colore “Blacktivist”.
La fabbrica dei troll
L’indagine rivela come i russi adottassero metodi scientifici per raggiungere i propri obiettivi, tracciando attentamente l’attività dagli account fake e dimensionando il budget.
I troll professionisti, selezionati attraverso siti di job posting, avevano elevate doti comunicative, un’ottima conoscenza della lingua inglese e della cultura americana, e grandi capacità inventive per creare ogni giorno nuovi contenuti.
Alcuni di loro sarebbero anche stati negli Usa sotto falso nome, dopo aver rubato online identità di cittadini americani.
La più grossa organizzazione nel mirino della corte americana ha tanti nomi, Internet Research Agency, Mediasintez, Glavset, Mixinfo, Azimut, Novinfo, ma è sempre la stessa. È la famigerata “Fabbrica dei troll” che ha sede in una palazzina anonima in via Savushkina 55 a San Pietroburgo. Secondo l’atto di imputazione aveva come obiettivo di “seminare sfiducia nel sistema politico americano, comprese le elezioni presidenziali del 2016. Gli imputati hanno pubblicato online informazioni diffamatorie su molti candidati, supportando la campagna di Trump”.
Sempre secondo gli investigatori la società costituì nel 2014 una divisione chiamata “Progetto traduttore” che aveva come specifico obiettivo la cittadinanza americana. I circa 80 dipendenti assegnati alla divisione si occupavano di operazioni sui principali social media, inclusi Youtube, Instagran, Facebook e Twitter.
Il cuoco di Putin
La prima persona a comparire nell’elenco dei 13 imputati è Yevgeny Prigozhin. È ritenuto il proprietario della “Fabbrica”. È anche conosciuto come “il cuoco di Putin”, per via del servizio di catering che la sua società fornisce al Cremlino. Già sulla lista delle sanzioni individuali Usa per il suo supporto ai separatisti in Ucraina, è anche ritenuto vicino alla compagnia militare privata impegnata in Siria che ha recentemente subito grosse perdite per un attacco americano.
La “Fabbrica” di Prigozhin è stata a lungo sotto la lente di ingrandimento dei media internazionali. Secondo un’inchiesta del canale russo Rbk, ora sarebbe stata leggermente ridimensionata per mantenere un profilo più basso. Sarebbero una cinquantina gli impegnati ora nel dipartimento “progetto traduttore”, con uno stipendio di tutto rispetto per la media russa, fino a più di 2mila dollari al mese.
I social media hanno cominciato a conoscerla e a bloccare gli account fasulli. Ma, ha detto una fonte a Rbk, non appena Facebook blocca un utente, il dipartimento IT genera un nuovo indirizzo Ip e tutto ricomincia.
L’azienda avrebbe poi speso almeno 80mila dollari in due anni per sponsorizzare, sotto le spoglie di entità americane, una quarantina di manifestazioni ed eventi di piazza.
Come quella volta che un “troll” ha postato su Facebook un finto hot-dog party a Manhattan e si è goduto lo spettacolo della folla ignara dalle webcam per strada.
Ma non chiamiamola manipolazione delle masse.
@daniloeliatweet
L’incriminazione a Washington di tre aziende e 13 cittadini russi apre una finestra sull’industria delle fake news e i suoi più talentuosi professionisti, assoldati da una misteriosa azienda di San Pietroburgo