Se lo scorso 8 novembre il premier Narendra Modi non avesse annunciato a sorpresa la gigantesca manovra di ritiro di tutte le banconote da 500 e 1000 rupie in circolazione nel Paese – pari all’86 per cento dei contanti in uso in India – oggi staremmo qui a scrivere un paragrafetto sul 2016 anno della conferma del «miracolo indiano». Invece, tirando le somme dell’anno passato e immaginando quello che verrà, non si può non ripartire dalla parola dell’anno indiano: demonetizzazione.
Al secondo anno di amministrazione Modi, nonostante gli scossoni del work in progress verso un ammodernamento generale del secondo paese più popoloso del mondo, l’India ha saputo guadagnarsi la «fiducia dei mercati» e le lodi delle agenzie di rating, segnando proiezioni di crescita del Pil da far invidia a tutti i paesi in via di sviluppo (per non parlare degli sviluppati…). I piani di sviluppo della destra conservatrice hindu del Bharatiya Janata Party (Bjp) hanno avuto ottime recensioni internazionali, con la stampa in visibilio nell’identificare il subcontinente come il prossimo paese-promessa pronto a sbocciare: più 7 per cento del Pil, campagne per la promozione del mercato indiano all’estero e misure allettanti per attrarre investimenti stranieri, sforzi di respiro nazionale per formare una manodopera specializzata in grado di essere impiegata, e retribuita, per rimboccarsi le maniche e costruire mattone su mattone un’India a metà tra il futuribile e il futuristico. E, soprattutto, un’incessante presenza internazionale animata dai tour del «commesso viaggiatore» gujarati Narendra Modi, uomo-immagine dell’India marketizzata ai quattro angoli della Terra.
Non ci fosse stata la demonetizzazione, dicevamo, avremmo notato che molta della fiducia riposta nel governo indiano dagli osservatori internazionali ha più a che fare con la fede, o con l’azzardo, che con indici di crescita riscontrabili sul campo: il Pil aumenta ma non aumenta né l’occupazione, ferma ai minimi degli ultimi 7 anni, né il consumo interno, segno che la metamorfosi del più grande tra i paesi del terzo mondo necessita di pazienza, fiducia, e riforme epocali – in materia fiscale, soprattutto – ancora in attesa di essere vagliate dal caotico parlamento di New Delhi.
Invece, per motivazioni che al momento sfuggono anche agli agiografi del modismo, il primo ministro l’8 novembre ha forzato la mano e costretto 1,3 miliardi di persone a una bancarizzazione coatta dei propri contanti assolutamente imprevedibile. Le foto di milioni di persone in coda in banca per cambiare i propri soldi senza valore probabilmente non hanno colpito a sufficienza l’opinione pubblica mondiale, già stordita dalla vittoria di Trump negli Stati Uniti decretata nelle stesse ore in cui Modi, in tv, annunciava che la quasi totalità delle banconote nelle tasche degli indiani ora era da considerarsi «carta straccia». Eppure la misura degli effetti tellurici della demonetizzazione indiana sarà il metro col quale, nei prossimi mesi, occorrerà stimare l’opera di governo di Narendra Modi.
La scommessa del premier indiano, che inizialmente aveva convinto la popolazione a sopportare disagi macroscopici nell’economia quotidiana per «colpire i corrotti e gli evasori», negli ultimi giorni dell’anno è stata svelata come una mossa Kansas City in piena regola: «Mentre tutti guardano a destra, tu vai a sinistra».
Mentre tutti guardavano in direzione di evasori fiscali, falsari e ricchi corrotti, il paese veniva spinto tra le braccia dell’economia «cashless», incoraggiando quel dieci per cento di indiani che detiene il 75 per cento della ricchezza nazionale a modificare radicalmente le proprie abitudini consumistiche: basta contanti, via a carte di debito, di credito, instant banking, app per pagamenti virtuali. Il tutto, chiaramente, tracciabile, documentabile e, su tutte, tassabile.
Un azzardo gigantesco, considerando che il restante 90 per cento della popolazione a fatica sarà coinvolto, in tempi brevi, nell’inclusione bancaria necessaria per far funzionare un subcontinente intero riducendo al minimo l’utilizzo di banconote, l’obiettivo manifesto dell’amministrazione Modi.
Ma è opinione comune, anche dei detrattori di Modi, che il governo nonostante i disagi ancora evidenti a quasi un mese e mezzo dall’inizio della demonetizzazione, abbia «un piano». I cui dettagli, al momento, rimangono oscuri.
Nel migliore dei casi, lo shock dei contanti rientrerà entro la metà del 2017, mostrando al mondo un’India decisamente più «cashless», in grado di aumentare il gettito fiscale in modo considerevole (è ancora presto per stime numeriche) e procedere con soldi propri alle grandi opere di ammodernamento di cui il paese necessita. Il tutto, pagando un prezzo salato sulla pelle di centinaia di milioni di indiani della lower class che oggi fanno i conti con stipendi non pagati, lavori occasionali saltati, produzione agricola severamente danneggiata (niente soldi per comprare semi, raccolto della prossima stagione perso) e difficoltà di accesso al credito contante che si traducono in contrazione dei consumi, fino alla fame.
Se questa sofferenza collettiva si tradurrà in proteste contro il governo, fino ad oggi assolutamente risibili, lo vedremo nel marzo del 2017, quando l’Uttar Pradesh (205 milioni di persone) andrà alle urne per le elezioni locali. In un paese qualsiasi che non sia l’India, l’esito della tornata elettorale dopo aver vessato una popolazione intera in questo modo sarebbe dato per scontato. Qui, l’esperienza dovrebbe insegnare, non lo è affatto.
@majunteo