
Il 6 dicembre 92 la distruzione di un’antica moschea da parte di estremisti hindu istigati da potenti padrini politici scatenò durissimi scontri intercomunitari. Fu il confine tra l’India laica e multiculturale sognata con l’indipendenza e quella dominata dagli ultrainduisti che conosciamo oggi
Il 6 dicembre 1992, venticinque anni fa, centinaia di migliaia di ultrainduisti in meno di sette ore demolirono interamente la Babri Masjid, moschea del sedicesimo secolo eretta ad Ayodhya (Uttar Pradesh) per volere del sultano moghul Babar. Si tratta di un evento spartiacque nella storia dell’India moderna, una data simbolo che nessuno, nell’India di oggi, può ignorare. Dopo Ayodhya, 25 anni fa, il Paese non è stato più lo stesso.
La disputa intorno al luogo sacro della città dell’Uttar Pradesh era iniziata alla fine del diciannovesimo secolo, prima dell’indipendenza, quando parte della comunità hindu locale iniziò a recriminare l’utilizzo esclusivo, per riti religiosi, dell’area dove sorgeva la moschea: secondo loro, rifacendosi al testo epico della tradizione hindu Ramayana, la Babri Masjid era stata realizzata proprio sopra a un grande tempio hindu dedicato a Ram. Tempio che ora, rifacendosi dell’affronto subìto secoli prima, andava ricostruito.
L’iniziale proposta di suddividere l’area in due parti – una, interna, riservata ai musulmani; l’altra, che circondava la parte coperta della moschea, per gli hindu – così che entrambe le comunità potessero svolgere i rispettivi riti religiosi venne respinta sia dagli hindu sia dai musulmani, fino alla comparsa improvvisa – e “misteriosa” – nel 1949 di idoli del dio Ram sotto la cupola centrale della moschea. Sperando di evitare ulteriori frizioni intercomunitarie, il neo insediato governo dell’India indipendente dichiarò l’intera area, pari a 2,77 acri di terra, come «terreno conteso», portando la disputa nele aule dei tribunali.
Nell’ovattata burocrazia legale indiana e con le mediazioni politiche del governo statale e federale, lo scontro rimase dormiente fino a metà degli anni Ottanta, quando iniziò a prendere forza il cosiddetto movimento per il Ram Janmabhoomi (luogo di nascita di Ram) grazie al patrocinio politico della Vishwa Hindu Parishad (Vhp, sigla dell’ultrainduismo extraparlamentare) e del Bharatiya Janata Party (Bjp), partito conservatore a trazione hindu all’epoca minoritario. Promuovendo lo scontro intercomunitario locale a questione nazionale tra hindu e musulmani, Bjp e Vhp – sotto la guida di LK Advani – nel 1990 organizzarono un pellegrinaggio (rath yatra) in tutta l’India settentrionale, per sensibilizzare la popolazione circa l’inguistizia secolare della moschea di Ayodhya, simbolo della prevaricazione musulmana nei confronti dei legittimi abitanti dell’India: i fedeli hindu.
Il rath yatra toccò decine di località tra Gujarat, Madhya Pradesh, Bihar e Uttar Pradesh, fomentando l’odio intercomunitario tra hindu e musulmani, fino a subire due battute d’arresto col fermo di Advani in Bihar e l’intervento della polizia dell’Uttar Pradesh appena fuori da Ayodhya, schierata per fermare la furia di migliaia di sevak decisi a demolire seduta stante la moschea.
Avendo fatto della polarizzazione hindu vs musulmani il proprio dna politico, il Bjp fece il pieno di consensi nelle elezioni del 1991 e un anno dopo, forte del sostegno delle istituzioni locali e di centinaia di migliaia di hindu in tutta la regione, organizzò una nuova manifestazione simbolica nei pressi di Ayodhya dove, secondo i piani concordati col governo federale dell’Indian National Congress, centinaia di migliaia di sevak, alti papaveri del Bjp e del Vhp, avrebbero posato «simbolicamente» la prima pietra del nuovo grande tempio dedicato a Ram, da costruirsi in futuro.
Tra il 4 e il 5 dicembre, mentre centinaia di migliaia di ultrahindu raggiungevano i dintorni di Ayodhya da tutta l’India settentrionale, i funzionari della Vhp iniziarono a distribuire picconi e martelli ai «fedeli». Il giorno seguente, all’alba, quelle stesse centinaia di migliaia di persone demolirono pezzo per pezzo la Babri Masjid, mentre le forze dell’ordine stavano a guardare e i padrini politici della demolizione illegale – tutti membri del Bjp o della Vhp, compreso LK Advani – si giustificarono con New Delhi parlando di una manifestazione «sfuggita al nostro controllo».
Gli scontri intercomunitari che seguirono, esplosi in tutto il Paese, fecero almeno duemila morti, dando inizio a una spirale di violenza fuori controllo che negli anni seguenti toccò Bombay (1993), il Gujarat (2002, sotto il governo Modi), Muzaffarnagar (2013, campagna elettorale del Bjp), senza contare migliaia di micro-episodi e polemiche quotidiane che soffiano sul sentimento di odio tra hindu, la maggioranza del paese, e musulmani, poco più di 180 milioni di persone, prima minoranza religiosa in India.
Lo scorso aprile, i processi pendenti che coinvolgono i padrini politici del massacro di Ayodhya e «centinaia di migliaia di sevak non identificati» sono stati accorpati in un unico procedimento penale, che dovrebbe arrivare a sentenza entro la fine del 2019. Per L.K. Advani (89 anni, Bjp, deputato alla camera bassa del parlamento federale), Uma Bharti (58 anni, Bjp, ministra delle risorse idriche del governo federale) e M.M. Joshi (83 anni, Bjp, deputato alla camera bassa del parlamento federale), il capo d’accusa è associazione a delinquere.
È a loro che il Bjp deve il definitivo spostamento ideologico nell’agone dell’ultradestra hindu, una strategia che nel giro di 25 anni ha compromesso, forse irrimediabilmente, l’anima laica e multiculturale del Paese, scavando una frattura sempre più profonda tra la minoranza musulmana e la maggioranza hindu. Una frattura su cui il Bjp ha prosperato, facendo dell’identitarismo hindu il leitmotiv elettorale del nuovo millennio che lo ha portato a un’egemonia politica senza precedenti.
Oggi il Bjp, o i suoi alleati, governano in tutti gli stati toccati dal rath yatra degli anni Novanta, oltre a guidare il governo federale di New Delhi. E mentre proprio in questi giorni la disputa legale per l’uso a fini religiosi del terreno su cui sorgeva la moschea di Ayodhya è stata rimandata al prossimo mese di febbraio, con Narendra Modi primo ministro e Yogi Adityanath chief minister in Uttar Pradesh, la costellazione dell’ultrainduismo intravede il coronamento del sogno del tempio di Ram. Le condizioni sociali e politiche non sono mai state così favorevoli.
@majunteo
Il 6 dicembre 92 la distruzione di un’antica moschea da parte di estremisti hindu istigati da potenti padrini politici scatenò durissimi scontri intercomunitari. Fu il confine tra l’India laica e multiculturale sognata con l’indipendenza e quella dominata dagli ultrainduisti che conosciamo oggi