New Delhi incarica un mediatore per il Kashmir, esprimendo per la prima volta la volontà di dialogare con «tutte le parti in causa» per risolvere un conflitto a bassa intensità in corso da settant’anni. Ma una spaccatura generazionale fra i kashmiri può complicare le cose
Lunedì 23 ottobre, in una conferenza stampa, il ministro degli interni Rajnath Singh ha spiegato che il rappresentante del governo per la questione del Kashmir sarà Dineshwar Sharma, ex direttore dell’Intelligence Bureau già impegnato in analoghe negoziazioni con gruppi separatisti del nord-est in Assam e in Manipur. Il compito di Sharma, parafrasando Singh, sarà quello di «capire le legittime aspirazioni della popolazione del Jammu e Kashmir». Lo stesso Sharma ha chiarito il suo obiettivo principale: ristabilire la pace in Kashmir e trovare una soluzione permanente alla crisi.
La regione del Kashmir uscì dalla Partizione tra India e Pakistan divisa in due: l’Azad Kashmir (Kashmir Libero) in Pakistan, e il Kashmir indiano, oggi parte del Jammu e Kashmir (unico stato federato a maggioranza musulmana). La popolazione kashmira, seguendo il principio di autodeterminazione, dal 1949 chiede che venga effettuato quel referendum «ordinato» dalle Nazioni Unite per decidere se far parte dell’India indipendente, se annettersi invece al Pakistan o se formare un nuovo Stato indipendente. La consultazione pubblica, osteggiata da New Delhi, non si è mai tenuta.
In risposta al referendum negato, negli ultimi trent’anni la battaglia per l’indipendentismo kashmiro ha preso le fattezze della lotta armata, animata da diversi gruppi separatisti più o meno vicini a Islamabad. All’insurrezione permanente, New Delhi ha opposto una profonda militarizzazione del territorio e una repressione popolare costellata di violazioni dei diritti umani, in un ciclo di violenza ininterrotto dal cambiare delle amministrazioni centrali e locali.
Il Bharatiya Janata Party (Bjp) di Narendra Modi dal 2013, come i governi precedenti, ha trattato la questione kashmira come un mero problema di «law and order», intensificando gli scontri con una nuova generazione di militanti sempre più frustrati da quella che considerando una vera e propria occupazione militare portata avanti da New Delhi. Solo lo scorso anno, come raccontato da Camillo Pasquarelli qui, nel Kashmir si sono registrate centinaia di morti, migliaia di arresti e feriti.
Alla luce del passato recente, l’annuncio di lunedì segna una svolta quantomeno formale nell’approccio del Bjp – partito conservatore hindu – alla questione kashmira. Una novità accolta positivamente dalla chief minister del Jammu e Kashmir Mehbooba Mufti, a lungo promotrice del dialogo tra governo centrale e separatisti. I vertici delle principali sigle separatiste kashmire, mentre scriviamo, non hanno ancora rilasciato alcuna dichiarazione. Secondo Indian Express, è probabile intendano formulare una posizione unitaria in seguito a una riunione tra i nomi più noti dell’indipendentismo kashmiro: Syed Ali Shah Geelani, Yasin Malik e Mirwaiz Umar Farooq.
Nonostante questa apertura – giudicata dall’opposizione dell’Indian National Congress niente più che uno «spot elettorale» – le speranze di una risoluzione definitiva della questione kashmira attraverso il dialogo si scontrano con una realtà sul campo particolarmente complessa. In seguito all’assassinio del giovanissimo Burhan Wani, generale del gruppo separatista Hizbul Mujahiddeen, nella valle del Kashmir è emersa una spaccatura tra la vecchia guardia del separatismo – più incline al dialogo – e una nuova generazione di miliziani radicalizzati decisi a non abbandonare la lotta armata e, anzi, inclini a far confluire la questione kashmira all’interno delle istanze dell’estremismo-islamico transnazionale. L’emergere di gruppi separatisti kashmiri apertamente affiliati ad al-Qaeda – come Ansar Ghazwat-ul Hind sotto il comando del 23enne Zakir Musa – è una tendenza destinata a minare le possibilità di successo delle eventuali trattative future.
@majunteo
New Delhi incarica un mediatore per il Kashmir, esprimendo per la prima volta la volontà di dialogare con «tutte le parti in causa» per risolvere un conflitto a bassa intensità in corso da settant’anni. Ma una spaccatura generazionale fra i kashmiri può complicare le cose