
Da una settimana lo stato meridionale del Tamil Nadu è praticamente paralizzato da un’imponente protesta che ha toccato sia i centri urbani sia le campagne. Milioni di persone, soprattutto maschi, stanno manifestando per lo stralcio di un’ordinanza che vieta la pratica del jallikattu in tutto lo stato, uno «sport» a metà tra la corrida e la festa di San Firmino di Pamplona praticato nell’India meridionale da oltre duemila anni. E che, nel 2014, la Corte suprema aveva vietato per «crudeltà contro gli animali».
Lo sport del jallikattu, praticato da oltre duemila anni durante la festa del raccolto di pongal, la principale festività del Tamil Nadu, prevede che dei tori allevati durante tutto l’anno nei templi hindu siano liberati all’interno di grandi recinti dove i giovani locali gareggiano per domarli e vincere una serie di premi, assegnati a chi riesce a resistere cavalcando il toro per almeno 15 metri o per tre salti.
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Nel 2014, accogliendo le critiche di gruppi animalisti nazionali, la Corte suprema aveva imposto lo stop della pratica giudicandola «crudele contro gli animali», tenuti in cattività e poi liberati durante pongal alla mercé di centinaia di giovani in delirio. Il verdetto della Corte suprema, che si sovrapponeva alla legge statale del Tamil Nadu che regolava il jallikattu, all’inizio del 2016 è stato a sua volta opposto dal governo federale, che ne richiedeva una sospensione temporanea, a sua volta negata dalla massima corte indiana.
Nel mese di gennaio del 2017, dopo che un ultimo verdetto della Corte suprema ribadiva l’illegalità della pratica, alcune centinaia di persone hanno iniziato spontaneamente una protesta pacifica a Chennai, la capitale del Tamil Nadu, mentre nelle campagne si sono tenute decine di competizioni di jallikattu contro «l’ingerenza di Delhi nelle tradizioni locali del Tamil Nadu».
Da martedì 17 gennaio la situazione è degenerata. Alle poche centinaia di persone accampate lungo Marine Drive a Chennai si sono aggiunte migliaia e migliaia di manifestanti provenienti da tutto lo stato, con la protesta che di giorno in giorno si espandeva, quasi sempre pacificamente. Scioperi, negozi chiusi, binari del treno e strade occupate hanno galvanizzato i sentimenti di milioni di tamil che nella minaccia al «proprio sport» vedono l’ennesimo tentativo del governo centrale di New Delhi di riaffermare la propria autorità identitaria e culturale sulle peculiarità locali. Un sentimento che in Tamil Nadu arriva da lontano, sin dall’Indipendenza, quando la neonata Repubblica indiana impose in tutta la nazione l’utilizzo della lingua hindi come idioma nazionale; all’epoca la popolazione tamil scese per strada in proteste violente a difesa della lingua tamil, represse dalle neonate forze di sicurezza indiane.
Il jallikattu, quindi, sembra essere semplicemente la miccia che sta facendo esplodere un risentimento locale dalle radici profonde e che, nel caos politico causato dalla morte della chief minister Jayalalithaa, si somma alla disaffezione generale verso un potere centrale – rappresentato sia dai giudici della Corte suprema sia dal governo federale di New Delhi – percepito come un’entità ostile e una minaccia costante all’identità culturale locale. Per questo una pratica considerata «rurale» come il jallikattu è diventata in questi giorni un simbolo capace di unire diversi strati della popolazione tamil, plasmando un movimento di protesta trasversale che tocca i ceti medio alti come i contadini.
Lunedì 23 gennaio, dopo una settimana di tensioni, la polizia è stata mandata a Marine Drive per disperdere la folla, causando incidenti, cariche di bastoni e la reazione dei manifestanti, che ha dato alle fiamme alcuni posti di polizia e veicoli delle forze dell’ordine. In tutta risposta il governo locale ha annunciato un meeting straordinario previsto per questo pomeriggio in cui si dovrebbe trovare una «soluzione definitiva» al problema: nonostante il governo di Chennai sabato scorso avesse già emanato un’ordinanza che permetteva lo svolgersi del jallikattu per i prossimi sei mesi, i manifestanti avevano continuato la protesta pretendendo proprio una «soluzione definitiva». Anche se, a norma di legge, solo la Corte suprema può esprimersi in questo senso, con un verdetto atteso entro la fine del mese.
@majunteo