“Vabbé, ma in India quasi tutti parlano inglese, almeno un po’…no?” è una delle domande retoriche clou di amici e conoscenti italiani ogni volta che torno in Italia. La risposta è no, non lo parlano quasi tutti. E alcuni lo osteggiano proprio.

Parliamo della Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), organizzazione volontaria paramilitare per la difesa dell’indianità, intesa come fede hindu e preservazione delle tradizioni contro gli spettri della globalizzazione, del multiculturalismo, dell’Islam.
La Rss è il vivaio della classe dirigente della destra indiana, il gruppo dove farsi le ossa prima di essere proiettati ai piani alti del Bharatiya Janata Party (Bjp), sostenuti da centinaia di migliaia di adepti molto radicati sul territorio.
In India, almeno per quanto riguarda la destra conservatrice, sono organizzazioni di questo tipo ad imporre l’agenda politica, i temi culturali da abbracciare e difendere durante le campagne elettorali. Se Il Tema del Bjp è l’opposizione all’Islam, recentemente c’è stato un grande revival dell’opposizione all’uso della lingua inglese, nemico numero uno delle tradizioni locali e feticcio di un “finto progresso”.
Lo ha dichiarato il capo supremo della Rss, Mohan Bhagwat, durante l’inaugurazione di una scuola a Gaya, Bihar. Secondo Bhagwat, che gode della fiducia e stima sia del probabile candidato premier Narendra Modi che del presidente del Bjp Ranath Singh, non solo l’inglese rappresenta un’illusione di progresso, ma ha deviato il corso dell’educazione in India, che secondo la Rss dovrebbe avere il compito di “sviluppare attaccamento e dedizione al Paese”. Non pago, Bhagwat ci ha messo il carico, denunciando che “la maggioranza dei casi di corruzione e delle irregolarità è commessa da persone cosiddette istruite”, in linea con la tendenza che individua nelle donne col cellulare e i jeans le più propense all’adulterio, altro cavallo di battaglia di questa parte di India fuori dal tempo e dalla realtà.
Il giorno precedente lo stesso Rajnath Singh, a Delhi, aveva descritto la lingua inglese come la causa di una grande perdita per l’India: “Oggi il sanscrito è parlato solo da 14mila persone”, si struggeva il presidente del Bjp.
Il discorso sottende una predilezione per l’uso dell’altra lingua ufficiale della Repubblica Indiana, la hindi, evoluzione naturale del sanscrito riservato a bramini e a funzioni o testi religiosi, liberandosi finalmente del giogo cultural-linguistico degli (ultimi) invasori.
Come hanno notato a Firstpost, scagliarsi contro l’inglese appare una scelta abbastanza assurda, considerando che Narendra Modi ha impostato la propria campagna elettorale strizzando l’occhiolino alla middle class nazionalista, gente che parla inglese e che, in considerevole quantità, in paesi anglofoni ci vive.
La polemica mi ha fatto tornare alla mente un episodio. Tempo fa necessitavo di un documento da Delhi per provare a rinnovare il visto, foglio che avrei dovuto ottenere con l’aiuto del Foreigner Regional Registration Office (Frro) locale. L’ormai mitologica Kabita-di, la funzionaria del Frro di Siuri (Bengala occidentale) responsabile di gastriti e frustrazioni epiche alle prese con la macchina burocratica indiana, nel tentativo di (far finta di) aiutarmi, telefonò all’ufficio del Ministero degli Interni di Delhi in cerca di ragguagli. Dopo pochi minuti di conversazione mise giù la cornetta e stizzita si sfogò con un collega in ufficio, sbraitando in bengali, l’unica lingua che conosce: “Questi di Delhi non parlano nemmeno bengali!”
Magari col sanscrito…
“Vabbé, ma in India quasi tutti parlano inglese, almeno un po’…no?” è una delle domande retoriche clou di amici e conoscenti italiani ogni volta che torno in Italia. La risposta è no, non lo parlano quasi tutti. E alcuni lo osteggiano proprio.