Due progetti avviati da Delhi su fiumi condivisi minacciano l’autonomia idrica del Pakistan, denuncia Islamabad. E complicano i rapporti tra Modi e il nuovo governo Khan, facendo salire la tensione in uno dei territori più critici (e militarizzati) dell’Asia Meridionale
Se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro delle relazioni tra India e Pakistan non annuncia progressi rilevanti. È quanto emerge dal primo incontro seguito all’insediamento del nuovo governo guidato dal Primo Ministro pachistano Imran Khan. Mercoledì e giovedì scorsi, due delegazioni, una indiana e una pachistana, si sono incontrate a Lahore per il confronto semestrale previsto dal Indus Water Threaty (Iwt), il trattato che dalla sottoscrizione avvenuta a Karachi nel 1960 regolamenta la gestione dei fiumi condivisi.
All’ordine del giorno c’erano due progetti idroelettrici avviati da New Delhi su altrettanti tributari del Chenab – uno dei principali affluenti dell’Indo – ma contestati da Islamabad in quanto minaccerebbero l’autonomia idrica pachistana contravvenendo ai dettami del Iwt. L’accordo riconosce all’India pieno diritto di sfruttamento dei fiumi orientali, ovvero Sutlej, Beas e Ravi, allo stesso modo assegna al Pakistan i corsi d’acqua occidentali, Indo, Jhelum (in India chiamato Kishanganga) e Chenab, prevendendo eccezioni per utilizzi non invasivi degli affluenti minori.
È proprio sul fiume Marusadar, tributario del Chenab, che New Delhi sta realizzando la diga di Pakal Dun, destinata alla conservazione dell’acqua per la redistribuzione nei periodi di siccità e alla generazione di 1.000 megawatt di energia per illuminare la porzione indiana del Jammu e Kashmir, territorio conteso tra India e Pakistan sin dall’indipendenza dell’agosto 1947. Si è poi discusso dell’impianto idroelettrico da 48 megawatt sul fiume Lower Kalnal, additato dal governo pachistano per le conseguenze sulla portata del Chenab.
Secondo i principali quotidiani dei due Paesi, durante l’incontro di Lahore la delegazione della India Water Commission guidata da Pradeep Kumar Saxena ha rigettato tutte le obbiezioni presentate da Syed Jamaat Ali Shah, referente della Commissione pachistana. Il delegato di New Delhi si è limitato a convocare un team di tecnici pachistani affinché visitino i cantieri, aprendo alla possibilità di stilare un memorandum tecnico per entrambi i progetti che rifletta i dettami del trattato sulla condivisione delle acque originate in Himalaya, al confine tra India e Pakistan.
È questo uno dei territori più critici dell’Asia Meridionale, dove, dalle sorgenti alimentate dal ghiacciaio Siachen nascono alcuni dei più importanti fiumi asiatici, uno tra tutti è l’Indo, la principale risorsa idrica del Pakistan. Non è un caso se tra queste cime corre la Line of Control (LoC), il confine fittizio tra Pakistan e India che (anche) qui si confrontano in una delle diverse contese, la disputa per il controllo del Kashmir. Non è un caso nemmeno se qui ancora oggi si trova la zona militarizzata più alta al mondo. Sullo Siachen il confronto armato tra i due Paesi risale al 1984, quando New Delhi ordinò l’avvio dell’operazione Meghadūta, manovra preventiva seguita alla movimentazione delle truppe di montagna pachistane, giunte, secondo il governo indiano dell’epoca, troppo vicine all’area controllata dall’India.
Dopo alcuni periodi segnati da combattimenti veri e propri, il conflitto è entrato in una fase di bassa intensità, durata sino al cessate il fuoco bilaterale siglato nel 2003. Malgrado l’accordo, l’area continua ad essere attivamente presidiata da entrambi gli eserciti, poco propensi a mollare la presa temendo di favorire l’altra parte. Gli attriti sulla gestione dei fiumi rientrano dunque in questo confronto di lunga data che contrappone le due potenze nucleari da sempre, il tutto con pesanti ripercussioni sugli equilibri regionali.
Va da sé che il controllo dell’acqua da parte di chi sta a monte è uno strumento efficace per aumentare la pressione sui governi confinanti, soprattutto se dall’acqua dipende la sopravvivenza stessa delle economie nazionali. L’Indo è l’esempio tipo. Da anni il Pakistan sta facendo i conti con la scarsità d’acqua, problema che riguarda anche il resto del subcontinente – inclusa l’India – dove oggi abita un quinto della popolazione mondiale.
Lungo il bacino del maggiore fiume pachistano vivono 237 milioni di persone, ma il loro numero salirà a 319 milioni entro il 2025 e a 383 milioni nel 2050. Per tutte loro l’Indo è una risorsa essenziale in quanto bagna l’80% delle terre agricole pachistane, comparto, l’agricoltura, che da solo realizza il 22% del Pil nazionale dando lavoro al 42% della popolazione. L’Indo è anche una importante risorsa per il consumo domestico, che in Pakistan cresce progressivamente, anno dopo anno, malgrado la portata del fiume sia destinata a ridursi dell’8% entro il 2050 per effetto della diminuzione del volume dei ghiacciai e della flessione degli apporti monsonici.
Cala la portata e cresce il fabbisogno dunque, con l’aggiunta di possibili interferenze indiane a monte, sugli affluenti del Kashmir indiano. Posizione quella indiana, aggravata dalla decisione presa dal Primo Ministro indiano Narendra Modi all’indomani dell’attacco alla base militare indiana di Uri da parte di un commando di militanti giunti dal confine pachistano. Azione costata 19 vittime tra le forze di sicurezza indiane, per la quale New Delhi ha responsabilizzato Islamabad. Come rappresaglia, Modi, leader Bharatiya Janata Party (BJP, il principale partito della destra nazionalista hindu) ha annunciato la volontà di intraprendere decisioni unilaterali in merito al Iwt, affermando che «acqua e sangue non possono fluire assieme». Questo almeno fino a quando il Pakistan non interverrà in modo risolutivo per arginare la minaccia terrorismo in Asia Meridionale.
Poco importa quindi se Modi ha salutato l’instaurazione di Khan del 18 agosto auspicando un «coinvolgimento significativo e costruttivo» nei rapporti bilaterali. Dichiarazione cui ha replicato il nuovo primo ministro pachistano in un tweet affermando che «per andare oltre, Pakistan e India devono dialogare e risolvere i conflitti, incluso il Kashmir. Il miglior modo di ridurre la povertà e sollevare la gente del Subcontinente è risolvere le nostre differenze attraverso il dialogo e iniziare a commerciare». È chiaro che si tratta di esternazioni di facciata, previste dal protocollo, molto lontane dalla realtà sul campo, così come emerge dagli attriti innescati dai progetti sul Chenab.
Quindi come intervenire? La prima reazione del governo guidato dal Primo Ministro di Islamabad, al pari dei precedenti, guarda oltre la LoC, all’India e alle sue dighe, prospettando il ricorso all’arbitrato internazionale affinché New Delhi sospenda i lavori, almeno fino alla revisione di entrambi i progetti e al loro reintegro nel Iwt. In precedenza (nel 2010) Islamabad si era appellata alla Corte Internazionale dell’Aia per bloccare la costruzione della diga sul fiume Kishanganga. Al termine dell’arbitrato nel 2013, l’India era stata autorizzata a completare l’opera a patto fosse garantito un flusso minimo di nove metri cubi al secondo verso il bacino dell’Indo.
Richiamare l’India alle proprie responsabilità non è una soluzione e, ammesso New Delhi accettasse le istanze della controparte, non basterebbe comunque. Per far fronte alla crisi idrica il Pakistan deve provvedere alla completa ristrutturazione del sistema nazionale di gestione delle acque. Significa risolvere la piaga dei furti –migliaia di pompe non autorizzate usate per fini privati a scapito delle disponibilità di falda – investire in progetti di educazione collettiva al risparmio idrico, quindi destinare ingenti risorse e competenze al completo rifacimento delle infrastrutture esistenti. Non è un caso se ogni anno il 90% delle acque pachistane finisce nel Mare Arabico per effetto dell’inefficienza di canali, bacini e dighe, problema diffuso a livello regionale e altrettanto grave in Afghanistan.
L’ammontare di queste perdite costa a Islamabad 21 miliardi di dollari l’anno – inclusi i danni legati alla minore produzione agricola e industriale. C’è poi il costo sociale. Solo il 12% dell’acqua pubblica è considerata salubre e più dell’80% della popolazione riceve acqua sporca o contaminata a un tale livello che secondo il Pakistan Council of Water Resources (Pcwr, l’organo sovrano imputato alla ricerca e al monitoraggio delle risorse idriche nazionali) ogni anno 200mila bambini muoiono avvelenati per aver bevuto dai rubinetti collegati alla rete nazionale.
Il dato di fatto è che il Pakistan ereditato da Imran Khan avrà sempre più bisogno d’acqua. L’avvertimento giunge ancora dal Pcwr: nel 1990 il Paese soffriva di “stress idrico”, nel 2005 è subentrata la fase della “scarsità d’acqua” e senza un intervento efficace nelle infrastrutture, entro il 2025 sarà avviato all’esaurimento delle risorse. Khan lo sa bene, tanto da aver indirizzato buona parte dei suoi sforzi in campagna elettorale proprio sulla necessità di rifondare il sistema di gestione delle acque.
Investimenti dunque, da aggiungere a quelli promessi per il rilancio di economia e occupazione, malgrado il Pakistan stia attraversando un livello di esposizione debitoria senza precedenti, in grado di compromettere sul nascere qualsiasi piano di adeguamento della rete.
@EmaConfortin
Due progetti avviati da Delhi su fiumi condivisi minacciano l’autonomia idrica del Pakistan, denuncia Islamabad. E complicano i rapporti tra Modi e il nuovo governo Khan, facendo salire la tensione in uno dei territori più critici (e militarizzati) dell’Asia Meridionale