Alla fine di gennaio 22 cittadini indonesiani sono stati rimpatriati dalle autorità turche con l’accusa di avere collegamenti con i terroristi dello Stato Islamico. Tra loro anche Triyono Utomo Abdul Bakti, ex funzionario del Ministero delle finanze del Paese asiatico arrestato mentre cercava di attraversare il confine turco-siriano.
Trentanove anni, con un master alla Flinders University di Adelaide in Australia, Bakti era un insospettabile. Poi qualcosa è cambiato. Nel febbraio del 2016, ha spiegato Nufransa Wira Sakti, portavoce del ministero, «si è dimesso come dipendente pubblico e nessuno è più riuscito a contattarlo». Secondo la polizia, l’uomo, insieme alla sua famiglia, aveva lasciato l’Indonesia nell’agosto scorso per recarsi in Turchia e successivamente entrare in Siria per unirsi ai miliziani dell’ISIS.
Qualche giorno prima della sua cattura, altri 17 indonesiani sono stati consegnati da Ankara all’antiterrorismo di Giacarta. Anche in questo caso, secondo gli investigatori, gli uomini sarebbero collegati agli islamisti e non è escluso che potrebbero aver avuto dei contatti anche con Abdulgadir Masharipov, il killer della strage di Capodanno, autore dell’uccisione di 39 persone all’interno del club Reina di Istanbul. Stando a quanto riferisce Benar News, infatti, durante la perquisizione nell’appartamento che il 16 gennaio ha portato all’arresto del terrorista kirgizo sono state trovate, oltre a 197mila dollari in contanti, anche delle rupie indonesiane.
L’Indonesia non è certo nuova ad azioni di controterrorismo interno mirate anche ad arginare il fenomeno dei foreign fighters. Sin dal 2002, anno dei sanguinosi attentati terroristici di Bali che hanno causato la morte di oltre 200 persone, il governo indonesiano ha assestato duri colpi contro i principali gruppi jihadisti del Paese, riuscendo quasi a distruggere completamente Jemaah Islamiyah (JI), organizzazione panasiatica fondata nei primi anni novanta con l’obiettivo di creare uno stato islamico in tutto il sud-est asiatico.
Nel luglio scorso il Distaccamento 88, l’élite dell’antiterrorismo, ha ucciso Santoso, il terrorista più ricercato dell’Indonesia, leader di East Indonesia Mujahidin (MIT), il primo che aveva giurato fedeltà ai tagliagole guidati da Abu Bakr al-Baghdadi. Ma la morte del super ricercato, pur rappresentando un grande successo per le forze di sicurezza, sembra non essere destinato a fermare l’avanzata dei gruppi radicali armati. L’analista Sidney Jones, dell’Istituto di analisi politica dei conflitti di Giacarta, sulle pagine del quotidiano francese Le Monde, subito dopo la conferma dell’uccisione di Santoso, spiegava appunto che la morte del jihadista non basterà a fermare l’ondata di violenza nel Paese, perché «il pericolo è legato a varie cellule ben radicate nelle città».
A questo va aggiunto che, secondo i servizi di sicurezza indonesiani, nell’ultimo periodo sono rientrati nel Paese centinaia dei mille combattenti che si erano arruolati nelle file delle bandiere nere in Siria ed Iraq. E proprio per questo il rischio di nuove violenze è concreto, nonostante l’operato del presidente Joko Widodo, che ha fatto della battaglia al terrorismo una delle priorità del governo che guida dall’ottobre del 2014.
Alla fine di gennaio 22 cittadini indonesiani sono stati rimpatriati dalle autorità turche con l’accusa di avere collegamenti con i terroristi dello Stato Islamico. Tra loro anche Triyono Utomo Abdul Bakti, ex funzionario del Ministero delle finanze del Paese asiatico arrestato mentre cercava di attraversare il confine turco-siriano.