Intervista ad Andrew Spannaus: l’America post globale
Andrew Spannaus, analista politico americano, ci parla nel suo nuovo libro della crisi della globalizzazione e della politica americana dopo le elezioni, tratteggiando i contorni di un mondo post globale
Andrew Spannaus, analista politico americano, ci parla nel suo nuovo libro della crisi della globalizzazione e della politica americana dopo le elezioni, tratteggiando i contorni di un mondo post globale
Andrew Spannaus
“Il genio non si può rimettere nella bottiglia, e tra la popolazione e le ali “populiste” di entrambi i grandi partiti, cresce la richiesta di un ruolo più attivo dello Stato. Per alcuni versi, si continuerà in questa direzione, anche con tentativi di politica industriale, mentre la battaglia tra centro/establishment e schieramenti di segno opposto sarà serrata: potremmo dire che rappresenterà la contrapposizione determinante dei prossimi anni”. Dopo aver anticipato sulle pagine degli scorsi saggi – Perché vince Trump (2016) e La rivolta degli elettori (2017) – l’irrompere del fenomeno populista sulla scena americana ed europea, il giornalista e analista politico statunitense Andrew Spannaus ci racconta in questo suo nuovo libro, L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro (Mimesis Edizioni), la crisi ubiqua della globalizzazione e il cambiamento di rotta rappresentato, pur con tutti i suoi difetti e approssimazioni, dalla presidenza di Donald Trump, riflettendo su quale modello assumerà una società attraversata da istanze populiste e sconvolta dall’irruzione della pandemia. Italiano fluido, misurato nei modi, Spannaus ci illustra l’andamento della politica americana dopo le ultime presidenziali, discorrendo su come uscire dall’attuale impasse economica e tratteggiando i contorni di un nuovo mondo. Un mondo post-globale.
Spannaus, a fronte della vittoria del candidato democratico Joe Biden, il Presidente Donald Trump annuncia il riconteggio dei voti e la richiesta d’intervento della Corte suprema. Ravvisa in queste ultime elezioni un certo deterioramento della qualità del sistema politico americano?
Joe Biden è stato dichiarato vincitore delle elezioni dalle organizzazioni mediatiche e buona parte del Paese gli riconosce la vittoria, mentre Donald Trump e alcuni repubblicani resistono, promettendo ricorsi legali e denunciando brogli. Per ora girano teorie prive di una base solida, che segnalano al massimo qualche errore, spesso corretto e comunque non in grado di cambiare l’esito del voto. Sembra che non si potranno determinare brogli significativi, anche perché i conteggi vengono condotti alla presenza dei rappresentanti di entrambe le campagne e sotto la supervisione di funzionari eletti, spesso dello stesso partito repubblicano. Il ricorso alla Corte Suprema è un tema importante. Se ne avessero la possibilità, alcuni dei giudici probabilmente si presterebbero ad un intervento che potrebbe limitare l’espressione dei voti, come hanno già indicato in alcune sentenze recenti. I repubblicani e Trump hanno confermato alla svelta una nuova giudice, in spregio alle regole del fair play istituzionale, sperando di ottenerne un vantaggio sia a lungo termine sia in caso di contestazioni del voto di quest’anno. Ad ogni modo, serviranno fatti concreti, che non sembrano esserci. La politicizzazione dei tribunali e della Corte Suprema è un elemento preoccupante. I giudici sono in genere persone serie, pur con un punto di vista personale, ma il modo in cui i partiti si battono per nominare figure che condividono le loro posizioni ideologiche riduce la fiducia nel ramo giudiziario. La colpa, in questo caso, afferisce principalmente alla leadership repubblicana del Senato, che ha deciso che vincere è più importante che seguire regole condivise, e così ha usato le proprie prerogative per rallentare il più possibile le procedure sotto i presidenti democratici, per poi accelerare con l’arrivo dei presidenti repubblicani.
Sulla percorribilità di politiche nuove che segnino un cambiamento significativo rispetto al passato, lei rileva i numerosi contrasti fra gli obiettivi del Presidente Trump e la volontà degli altri dipartimenti del governo federale. Ritiene che questa sia una direttrice che caratterizzerà anche in seguito l’orizzonte della politica americana?
Trump è arrivato al potere come nemico dell’establishment del Paese, anche quello repubblicano, pronunciandosi contro la globalizzazione neoliberista e contro le guerre incentrate su cambiamenti di regime e provocando una feroce opposizione istituzionale nei suoi confronti. Il suo stile e i suoi evidenti difetti personali hanno contribuito ad infuocare il clima ma lo scontro fondamentale è stato sul controllo dello Stato. Trump ha preso il controllo del partito repubblicano non perché lo volessero i politici di quello schieramento, ma in quanto costretti a seguirlo su molti temi a causa dell’ampio appoggio popolare. Ha avviato una trasformazione del partito repubblicano, avvicinandolo alla classe lavoratrice e ponendo temi che i vertici del partito avrebbero preferito evitare. Oggi, con il probabile commiato di Trump tra due mesi, il partito si trova di fronte ad un bivio: i “vecchi”, se manterranno la maggioranza al Senato, conserveranno comunque un grande potere, potendo costringere Biden ad una politica centrista, con meno spesa pubblica, e bloccando le iniziative più decise della sinistra. Cresce però lo schieramento dello stesso partito repubblicano che chiede l’allontanamento dal neoliberismo, interpretando il populismo di destra nella direzione di una rottura netta con le politiche della globalizzazione e della finanza speculativa.
Dopo i primi tentennamenti, Biden ha dismesso i panni del moderato per impegnarsi in interventi pubblici nella sanità e nell’espansione dello stato sociale. Ritiene che darà seguito a tali intendimenti?
La gravità della crisi dovuta alla pandemia ha spinto Biden verso posizioni più progressiste in economia. Nel corso dell’estate ha cominciato a parlare di Franklin Roosevelt e i suoi collaboratori hanno pubblicato articoli che prospettavano un massiccio intervento pubblico per rilanciare e ristrutturare l’economia, un piano che andava ben oltre quanto promesso alle primarie, quando dichiarava la sua avversione alla retorica rivoluzionaria di Bernie Sanders. Da un certo punto di vista, la piattaforma programmatica di Biden è molto progressista, anche se il candidato ha evitato di sottolineare troppo questi aspetti, preferendo presentarsi principalmente come l’alternativa al cattivo Trump e non come troppo schierato a sinistra. Ora, però, i nodi vengono al pettine. Nonostante un margine rispettabile nel voto popolare, in alcuni Stati importanti la vittoria di Biden è stata di stretta misura; i democratici hanno perso seggi alla Camera e mancato l’obiettivo di ottenere una maggioranza solida al Senato. Ciò significa che Biden si troverà costretto a cercare dei compromessi con i repubblicani, modalità politica coerente con l’approccio di tutta la sua carriera. Significa anche che sarà molto più difficile per i progressisti influenzare la nuova amministrazione: per esempio, la democratica di gran lunga più efficace in chiave rooseveltiana, Elizabeth Warren, farà molta fatica ad entrare nel gabinetto, in quanto i repubblicani al Senato avrebbero la possibilità di bloccarla. Il rischio è che Biden non riesca a fare quanto promesso – se non in modo relativamente limitato – e ritorni troppo presto al pragmatismo dell’amministrazione Obama. La congiuntura è difficile e i bisogni stringenti, quindi tenterà sicuramente di partire bene, trovando forse sponda in qualche repubblicano moderato. Lo scenario che si prospettava prima del voto – un’onda blu che avrebbe permesso l’attuazione di un programma trasformativo – è tuttavia svanito.
Cosa ha permesso lo stanziamento di ingenti misure economiche messe in campo per fronteggiare la crisi del Covid-19?
Durante i primi mesi della pandemia gli interventi dello Stato americano sono stati davvero notevoli: il Congresso ha approvato all’unanimità spese per oltre il 15% del Pil e la Banca centrale, la Fed, è stata, una volta tanto, partecipe nel sostenere l’economia reale, piuttosto che solo il mondo della finanza. L’elemento forse più interessante è che tutto questo sia stato fatto senza preoccuparsi di deficit e debito, in quanto la Fed ha semplicemente monetizzato il debito, ovvero creando soldi dal nulla – come, tra l’altro, fanno sempre le banche centrali quando si tratta di salvare le grandi banche – e mettendoli a disposizione dello Stato, essenzialmente a costo zero.
Quanto giudica proficua l’adozione di processi di decoupling e reshoring in un’ottica di contrasto agli effetti distorsivi della globalizzazione?
La spinta al reshoring è stata provocata da due fenomeni: da una parte l’emergere del populismo anti-liberista, legato alla necessità di affrontare il malcontento della classe media che ha sofferto la perdita del lavoro produttivo; dall’altra la pandemia, che ha sottolineato ancora di più il rischio di dislocare la produzione in giro per il mondo e di avere fragili catene di valore. In tale ambito, la direzione generale è cambiata, ma è difficile fidarsi di un’Amministrazione Biden a vocazione centrista che tratta con un partito repubblicano “liberato” dei populisti: il rischio è che si faccia il minimo sindacale, dando troppo peso a voci liberiste che osteggeranno cambiamenti più profondi. C’è comunque la questione cinese: i democratici riconoscono che Trump ha avuto ragione nel cambiare atteggiamento verso la Cina e non si tornerà indietro. I toni saranno più pacati, le iniziative avranno un carattere più multilaterale, ma resterà invariato l’obiettivo di ridurre la dipendenza dalla Cina e implementare lo sviluppo delle nuove tecnologie negli Usa per contrastare la supremazia di Pechino in settori chiave.
Quali sono gli approcci praticabili dagli Stati Uniti nei confronti dell’espansionismo della Repubblica Popolare Cinese? Considera positivo l’esito dell’accordo “di prima fase” (Phase One) firmato da Stati Uniti e Cina il 15 gennaio 2020?
Le istituzioni americane vedono Pechino come un competitor strategico e si stanno muovendo per contrastare mosse espansionistiche da parte della Cina. Questo processo era iniziato già con il Pivot to Asia di Barack Obama e ora i grandi investimenti cinesi nel settore militare, come le tensioni a Taiwan, incrementano il senso di urgenza di Washington. Non si può parlare di una sfida in tempi brevi alla superiorità americana, ma in alcuni settori come l’intelligenza artificiale, i missili ipersonici e le operazioni nello spazio la competizione sarà serrata. Finora si è riusciti a trattare le questioni economiche e militari in modo separato e, quindi, si cercherà di andare oltre il Phase One, accordo utile ma che non risolve alcuni temi importanti per gli Stati Uniti (sussidi statali, IT).
Quali fattori hanno caratterizzato la politica estera del Presidente Trump in questi quattro anni? Si potrebbe prospettare con Biden il ritorno a un interventismo militare di stampo tradizionale?
Trump è stato il primo Presidente in quarant’anni a non iniziare una nuova guerra e di ciò gli va reso merito. Ha sfoggiato una retorica a volte aggressiva, difendendo senza vergogna gli interessi americani, e si è battuto per riportare a casa le truppe americane ed evitare il coinvolgimento in nuove avventure militari – spesso contro l’opposizione all’interno della sua amministrazione. Nell’entourage di Biden ci sono vari personaggi che appartengono alla schiera degli interventisti di sinistra, gruppo speculare ai neoconservatori nel mondo repubblicano. Alcuni sicuramente occuperanno posizioni di potere nella nuova amministrazione. I consiglieri di Biden affermano che lui ha recepito il cambiamento anche in questo ambito, ma se lascerà la politica estera in mano a chi ha da sempre seguito il copione interventista potremo sicuramente aspettarci problemi nei prossimi anni.
Riguardo i tentativi di impeachment portati avanti dai democratici, ritiene che Trump possa aver violato la Costituzione americana?
Gli scandali del Russiagate non erano sostanziati da prove reali ma riflettevano un tentativo di condizionare le politiche di Trump verso la Russia, giudicata ancora una potenza nemica degli Stati Uniti dalla maggioranza delle istituzioni di sicurezza nazionale. Avendo fallito l’obiettivo, si è cercato di rimediare con l’impeachment sulla questione ucraina. È possibile considerare questo tentativo di rimozione del Presidente come parte di una campagna generale finalizzata a negargli la possibilità di impostare la politica estera americana. Sulla Russia non si ravvisano azioni degne di impeachment; sull’Ucraina si arriva più vicino, ma nel contesto di uno scontro in cui il Presidente aveva qualche ragione a rispondere alla campagna intentata contro di lui. Ci sono altre aree dove si può dire che il Presidente abbia violato la Costituzione: nei suoi conflitti d’interesse in merito agli hotel e altre proprietà che vengono utilizzate a pagamento da parte dello Stato, e – più importante – in alcune azioni militari limitate – l’uccisione di Soleimani, il bombardamento della Siria, seppur principalmente di facciata – dove Trump ha agito come i suoi predecessori, senza rispettare le prerogative del Congresso di dichiarare guerra. Qui, però, il Congresso stesso ha molte colpe, avendo preferito scaricare la responsabilità sulla Casa Bianca piuttosto che votare su questioni scomode.
Cosa ne pensa circa gli effetti a lungo termine dei cosiddetti Accordi di Abramo?
Trump ha cambiato l’orientamento americano in Medio Oriente, mettendo pressioni sull’Iran e abbracciando l’emergente alleanza Israele-Arabia Saudita. Sicuramente gli Accordi di Abramo creano una realtà nuova e avranno degli effetti positivi a livello economico per i Paesi coinvolti ma non risolvono il conflitto di fondo con l’Iran; in un certo senso lo acuiscono, lasciando in eredità al prossimo inquilino della Casa Bianca una situazione difficile, con il rischio di aumentare l’instabilità a lungo termine.
In conclusione, come valuta l’incidenza della riforma fiscale di Trump sulla working e middle class americana e quali soluzioni andrebbero adottate per migliorare l’attuale situazione socio-economica?
L’obiettivo primario della riforma fiscale di Trump era aumentare gli investimenti nell’economia reale, tagliando le tasse alle imprese e incoraggiandole a rimpatriare liquidità. La sua efficacia, tuttavia, è stata limitata, in quanto sono mancate regole incisive per incanalare la liquidità nella direzione desiderata e, soprattutto, la componente pubblica dello stimolo economico. Alla fine, si sono ridotte leggermente le tasse per la classe media, ma la percezione generale è che si è aiutato di più i ricchi. In tema di deregulation dell’industria e della finanza, i repubblicani tradizionali hanno ottenuto molto, contrastando gli istinti populisti provenienti dalla base del partito. A questo punto, occorre fare ulteriori passi in avanti sulla spesa pubblica, puntando su infrastrutture, innovazione scientifica e tecnologica, utili sia a livello interno sia per garantire la difesa della posizione americana a livello internazionale. La crescita dell’economia reale aiuterà a migliorare il tenore di vita, ma nel frattempo occorre garantire che i guadagni non vadano principalmente verso l’alto, il che significa aumentare il salario minimo, assicurare un sistema fiscale che privilegi le attività produttive e non speculative e potenziare lo stato sociale, ancora troppo debole; tutti temi che potranno ridurre la grande precarietà che affligge la working class americana.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
Andrew Spannaus, analista politico americano, ci parla nel suo nuovo libro della crisi della globalizzazione e della politica americana dopo le elezioni, tratteggiando i contorni di un mondo post globale
Andrew Spannaus
“Il genio non si può rimettere nella bottiglia, e tra la popolazione e le ali “populiste” di entrambi i grandi partiti, cresce la richiesta di un ruolo più attivo dello Stato. Per alcuni versi, si continuerà in questa direzione, anche con tentativi di politica industriale, mentre la battaglia tra centro/establishment e schieramenti di segno opposto sarà serrata: potremmo dire che rappresenterà la contrapposizione determinante dei prossimi anni”. Dopo aver anticipato sulle pagine degli scorsi saggi – Perché vince Trump (2016) e La rivolta degli elettori (2017) – l’irrompere del fenomeno populista sulla scena americana ed europea, il giornalista e analista politico statunitense Andrew Spannaus ci racconta in questo suo nuovo libro, L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro (Mimesis Edizioni), la crisi ubiqua della globalizzazione e il cambiamento di rotta rappresentato, pur con tutti i suoi difetti e approssimazioni, dalla presidenza di Donald Trump, riflettendo su quale modello assumerà una società attraversata da istanze populiste e sconvolta dall’irruzione della pandemia. Italiano fluido, misurato nei modi, Spannaus ci illustra l’andamento della politica americana dopo le ultime presidenziali, discorrendo su come uscire dall’attuale impasse economica e tratteggiando i contorni di un nuovo mondo. Un mondo post-globale.
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