Nel suo libro “Le regine rubate del Sinjar”, l’irachena Dunya Mikhail racconta le donne yazide schiavizzate dai jihadisti. “Il più grande sogno delle sopravvissute è l’oblio”, dice a eastwest. E dal suo esilio americano, la poetessa affida le sue speranze ai liberi librai di Baghdad
«Le nostre ragazze, le nostre ragazze, incatenate, si trascinano dietro il mondo». Sono le donne yazide, rapite nel nord dell’Iraq e schiavizzate da Daesh, i loro figli sfruttati per la costruzione di armi. Storia di tormento e coraggio, il nuovo libro della poetessa irachena Dunya Mikhail, Le regine rubate del Sinjar, è stato pubblicato in Italia dalla Nutrimenti per la traduzione di Elena Chiti.
Mikhail, secondo lei è possibile, per coloro che sono riusciti a sopravvivere a Daesh, tornare a una vita normale?
«Non credo. Sopravvivere da soli è davvero doloroso. È molto dura per coloro che riescono a tornare indietro e scoprono che i membri della loro famiglia sono scomparsi. La memoria delle donne che sono state stuprate è satura di orrore e anche i loro bambini si trovano a crescere serbando terribili ricordi. Uno dei sopravvissuti mi confidò che il suo più grande sogno è l’oblio».
Cosa rappresenta il Monte Sinjar per coloro che fuggono da Daesh?
«Il Monte Sinjar è il cuore dei villaggi del Nord dell’Iraq. Le sue rocce sono state più misericordiose degli esseri umani per i protetti che vi si sono rifugiati in tempo di crisi. La gente di quest’area, nel corso della storia, ha sempre fatto ricorso ai suoi tornanti e alle sue caverne per mettersi in salvo dai pericoli».
Potrebbe parlarci delle lettere dell’infamia impresse dai jihadisti?
«Si tratta del modello utilizzato dai jihadisti per etichettare gli altri e ridurli a semplici lettere come ‘N’ per Nazareth, ‘Sh’ per sciita e così via. Essi sono pericolosi in quanto possiedono una certa visione del mondo e sono convinti che tutte le altre siano sbagliate».
Le crudeltà della guerra e di Daesh mettono in risalto, per contrasto, atti di generosità e solidarietà. Quali di queste realtà solidali e di soccorso ha avuto modo di conoscere di persona?
«Ho incontrato il direttore dell’Ufficio di Sostegno ai Rapiti, anche se la persona più gentile e coraggiosa che ho avuto modo di conoscere è stato Abdullah Shrem, cha ha salvato finora più di 350 persone dalle grinfie di Daesh».
A causa delle minacce delle autorità irachene in relazione alla sua attività di scrittrice ha dovuto trasferirsi in America. Cosa ne pensa dell’attuale situazione in Iraq?
«Non ne sono davvero sicura poiché vivo fuori dal Paese ma la mia impressione è che la situazione lì vada di male in peggio. Vi sono tuttavia degli spiragli positivi che potrebbero dare qualche speranza, come Al-Mutanabbi Street a Baghdad, la strada delle librerie e dei caffé letterari. È ancora una realtà attiva giorno e notte. Lì i librai rincasano lasciando i negozi aperti con i libri disseminati sul pavimento o sugli scaffali. Si giustificano dicendo che i lettori non rubano e i ladri non leggono».
A suo avviso, quali sono le differenze tra la censura nel mondo arabo e in America?
«Nel mondo arabo la censura segue le parole mentre in America le precede. Intendo dire che nel mondo arabo la censura ritiene gli scrittori responsabili e può mettere le loro vite in pericolo come conseguenza di quello che dicono. In America di solito la gente limita le proprie parole in relazione a quanto può essere ritenuto accettabile, censurandosi da sé».
Nel suo libro “Le regine rubate del Sinjar”, l’irachena Dunya Mikhail racconta le donne yazide schiavizzate dai jihadisti. “Il più grande sogno delle sopravvissute è l’oblio”, dice a eastwest. E dal suo esilio americano, la poetessa affida le sue speranze ai liberi librai di Baghdad