Intervista esclusiva a Enrico Giovannini: il ministro del Futuro possibile
Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, cerca di portare al Governo la sua cultura aperta, internazionale, manageriale, europea. In questa intervista sincera ci fornisce qualche dettaglio della sua strategia.

Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, cerca di portare al Governo la sua cultura aperta, internazionale, manageriale, europea. In questa intervista sincera ci fornisce qualche dettaglio della sua strategia.
Enrico Giovannini è un uomo ordinato, che trasmette precisione dell’analisi, riflessività nelle risposte, accuratezza nelle valutazioni, peraltro spesso nette, non negoziabili.
È una persona della quale ti puoi fidare, che non ti lascia mai a terra. È in questo clima che cominciamo la nostra chiacchierata, nel suo ufficio di Ministro, con le distanze minime rispettate rigorosamente, monitorate dal suo occhio cortese ma vigile.
Tu hai avuto precedenti incarichi in amministrazioni pubbliche, anche più complesse, organismi multilaterali, che prevedevano la partecipazione di Stati (OCSE Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), non solo di componenti della vita politica nazionale. La domanda è si può conciliare la complessità della macchina amministrativa con obiettivi di breve periodo?
Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, che adesso si chiama delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, ha una sorta di ‘maledizione’: è chiamato a inaugurare opere decise dai suoi predecessori e quasi nulla di quello che come Ministro pro tempore ha definito. In questa tensione tra il breve e il lungo termine, sta il compito difficile di questo ministero, che deve gestire situazioni emergenziali, ma anche impostare piani che si realizzeranno nei 5/10 anni successivi. Ma anche le decisioni di breve termine devono inquadrarsi in una visione di medio-lungo. Con il Pnrr (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) questa visione è emersa chiaramente e mi ha anche indotto a cambiare nome a questo Ministero, che si occupa di tante cose diverse: infrastrutture, trasporti, salvataggio in mare dei naufraghi, assistenza a imbarcazioni da diporto. Abbiamo 10 anni davanti per trasformare l’Italia, aumentando la competitività, migliorando il benessere dei cittadini, nel rispetto dell’ambiente. Il Pnrr ci ha consentito di sviluppare una visione sistemica, in cui l’investimento nei porti, nelle ferrovie, nella digitalizzazione, nel trasporto pubblico locale, trovino una coerenza nei principi G20 e Ue che definiscono cos’è un’infrastruttura sostenibile. Due esempi rapidi:
- la cura del ferro è certamente qualcosa che dobbiamo fare per ridurre il traffico su gomma, non solo per trasportare le merci, ma noi abbiamo scelto anche di fare molti investimenti sull'”ultimo miglio” per collegare meglio aeroporti, porti, ferrovie e autostrade. Inoltre, abbiamo deciso di portare l’alta velocità al sud in parallelo al forte investimento sulle ferrovie regionali per migliorare la qualità della vita delle persone, per ridurre i divari tra centro e periferia, tra nord e sud;
- l’investimento per avere porti green, come hub fondamentali per il futuro. Ogni investimento deve rispettare questo cambiamento di paradigma: sostenibilità ed equità sono le nuove parole chiave per il Ministero e le sue politiche.
Porti, collegamenti, sono temi che rendono chiaro che non può esserci una policy solo italiana, ma c’è bisogno di un coordinamento internazionale sia a livello di organizzazioni multilaterali che nei rapporti bilaterali con i paesi vicini, con i paesi di provenienza dei flussi commerciali, dei flussi migratori. Il tuo ministero racchiude un pezzo di politica estera che oggi, come sappiamo, non si fa solo dentro la Farnesina ma anche dentro la società civile, dentro le aziende e dentro un ministero “tecnico”, come il tuo. Come ci muoviamo da questo punto di vista?
Ci muoviamo con grande difficoltà per due ragioni. La prima è che questa pandemia sta cambiando anche la geografia dei flussi di merci e persone. C’è una tendenza al reshoring e quindi una parte delle imprese forse si risposteranno in Europa, accorciando le filiere. E se faranno questo, poi dovranno inviare i prodotti finiti in giro per il mondo. Quindi, i container conterranno oggetti diversi (prodotti finiti e non semilavorati), ma i flussi commerciali globali resteranno, con nuove opportunità: pensiamo allo sviluppo dell’Africa, per cui l’Italia potrà essere non solo un porto di arrivo per le merci verso tutta Europa, ma anche un punto di partenza. Il che apre la domanda: dove vogliamo produrre? Nella pianura Padana e far attraversare le merci su gomma (speriamo sempre più su ferro) e poi le imbarchiamo nei porti? Oppure partono da Genova e da Trieste, e poi facciamo il reshipping nei porti del sud? Oppure una parte della produzione si sposta a sud? Come si vuole attrezzare il sistema economico italiano di fronte a questi cambiamenti? E poi c’è il secondo tema, quello del cambiamento climatico. Ormai, la rotta nord-ovest sta diventando sempre più praticabile, perché lo scioglimento dei ghiacci artici consente di passare da quella parte con un risparmio di tempo straordinario, per esempio per chi parte da Shanghai. Questo vuol dire che l’Italia verrà spiazzata perché si arriverà direttamente ad Amburgo o in Finlandia? La partita non è scontata, anche perché con il cambiamento climatico i canali interni nordeuropei potrebbero essere meno praticabili. Questi due grandi sconvolgimenti, uno legato alla globalizzazione e l’altro al cambiamento climatico, ci devono indurre a investimenti per rendere il nostro paese più resiliente (parola chiave, come dice anche il Pnrr) e flessibile, così da cogliere cambiamenti e opportunità. D’altra parte, l’Europa sta definendo le sue strategie per il futuro, anche quella sulla mobilità sostenibile, e uno dei compiti di quest’anno sarà quello di lavorare insieme agli esperti e alla società civile ad un piano generale della logistica e dei trasporti che aggiorni l’unico piano finora prodotto dall’Italia nel 2001. Però, dovrà essere un piano non basato sulle previsioni, vista l’incertezza di cui ho parlato, ma sull’approccio foresight, cioè sugli scenari alternativi, in modo da scegliere soluzioni che possano adattarsi a realtà diverse.
Il Pnrr non ha soltanto un significato economico ma anche politico. Perché spinge, forse in modo irreversibile, l’Europa verso una dimensione federale. E’ la prima volta che si distribuiscono le risorse sulla base dei bisogni e non delle virtù, ed è anche la prima volta che una parte importante di risorse viene recuperata sul mercato direttamente dalle istituzioni comunitarie e non attraverso il contributo degli Stati. Quanto le decisioni strategiche di cui hai parlato sono inserite nel processo decisionale di questa nuova Europa federale e quanto invece sono solo iniziative nazionali?
Credo che stiamo un po’ inseguendo gli eventi, sia a livello europeo che nazionale. L’accelerazione, il cambiamento che il Pnrr ha marcato hanno colto di sorpresa l’Europa. Se avessimo avuto una pianificazione europea degna di questo nome, avremmo avuto un quadro molto più coerente degli investimenti dei singoli Paesi. Questo non è avvenuto: per questo, sto insistendo con la Commissione Europea per far sì che prima possibile ci sia un’analisi integrata dei Pnrr nazionali, per vedere come la somma dei singoli piani genererà cambiamenti in Europa nei sistemi infrastrutturali e di trasporto. Se io investo molto sul traffico merci verso il Brennero, ma poi non trovo un analogo investimento dall’altra parte o viceversa, è chiaro che lo shift modale non avverrà. Dobbiamo però riconoscere che c’è anche molta competizione, non c’è solo cooperazione. Il tema però vale anche per l’Italia. Io sto insistendo che lo schema con il quale abbiamo disegnato il Pnrr venga usato anche per classificare le politiche sui fondi nazionali e quelle sui fondi europei “ordinari”. La policy coherence di cui parla l’OCSE richiede uno schema concettuale per essere praticata. Lo schema concettuale del Pnrr va conciliato con l’attuazione di altre politiche, dagli 80 miliardi dei fondi strutturali 2021-27 ai 15 miliardi del Fondo FSC (Fondo Sviluppo e Coesione), per evitare che queste politiche siano slegate o addirittura contraddittorie tra di loro e con il Piano. Sommando al Pnrr i fondi nazionali e i fondi europei, abbiamo veramente una massa straordinaria per i prossimi dieci anni, perché 2021-27 vuol dire in realtà arrivare fino al 2030. Peraltro, quando Regioni, Comuni e Governo faranno la progettazione dei fondi europei non potranno comunque discostarsi dai principi del Pnrr, perché altrimenti l’Ue non accetterà i progetti.
Un punto cruciale di questo momento di rilancio sono i tempi. Riemerge sempre l’antica massima Keynesiana che “nel lungo periodo siamo tutti morti”; in effetti, il Pnrr ci impone tempi brevi.
Questo Ministero, tra il Pnrr, i Fondi Complementari e gli ulteriori 10 miliardi sul completamento della Salerno/Reggio Calabria di alta velocità, si troverà a gestire più o meno 62 miliardi. Più i fondi ordinari. E’ chiaro che noi abbiamo inserito nel Pnrr soltanto quei progetti che pensiamo di poter realizzare. Non è che realizziamo tutta la Salerno/Reggio Calabria in 5 anni, abbiamo inserito tre lotti con una logica sistemica: ad esempio Battipaglia-Praia, che consente di andare verso Matera e Taranto, quindi la parte centrale e poi un intervento che consente di collegare il porto di Gioia Tauro con la ferrovia, superando i limiti che oggi le gallerie pongono al traffico dei container. D’altra parte, sulla base di un’analisi di rischio degli elementi che possono rallentare l’attuazione, abbiamo individuato 10 opere che avranno una corsia super preferenziale, con una sorta di comitato unico presso il Consiglio dei Lavori Pubblici in cui ci sono il Ministero della Transizione Ecologica e il Ministero della Cultura. Però attenzione, non tutti quei 62 miliardi sono opere pubbliche. Ci sono molti finanziamenti: 8 miliardi, ad esempio, andranno al rinnovo delle flotte del trasporto pubblico locale in senso ecologico, il rinnovo del materiale rotabile e così via. Cioè non ci sono solo Grandi Opere, ma anche interventi a basso rischio di completamento.
Dopo la pandemia torna centrale il ruolo delle future generazioni. E quindi il tema del capitale umano. Abbiamo sperimentato negli ultimi anni la famosa fuga dei cervelli. Io non sono tra quelli che pensano che dobbiamo tenere tutti i nostri cervelli in casa, penso idealmente a un mondo interconnesso. Però ci dobbiamo porre il problema di attirare i cervelli con iniziative, con capacità di ricerca, con impresa innovativa.
Distinguiamo tra capitale umano nel settore privato e in quello pubblico. Noi ci siamo domandati, visto che i 62 miliardi avranno un impatto forte sul settore delle costruzioni, se ci saranno sufficienti operai, e insieme all’Istat abbiamo condotto un’analisi sul fenomeno. La risposta è sì, perché negli ultimi anni le costruzioni hanno subìto una forte crisi, quindi c’è un bacino di riserva ampio, anche se il settore sta crescendo in modo straordinario, a un tasso del +13% di valore aggiunto rispetto all’anno precedente. Credo che questo darà una spinta importante per un’occupazione di qualità, su cui però siamo indietro come Paese. Non solo perché le ragazze tipicamente scelgono poco le discipline Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics), ma perché il mercato per i bravi ingegneri è già saturo. Diverso è il discorso per il settore pubblico. Ed è qui dove rischiamo di non trovare le competenze che stiamo cercando visti gli stipendi, che non sono concorrenziali con quelli del settore privato. Lo sforzo straordinario che questo governo sta facendo è di cercare figure professionali diverse da quelle classiche del passato (più di natura amministrativa), cioè ingegneri, architetti, economisti, chimici, fisici. Questo è un elemento culturale importante soprattutto nel Mezzogiorno. A cui si sposa un elemento trasformativo che ancora va valutato nella sua portata quantitativa e territoriale: sappiamo, infatti, che tante persone, grazie allo smart working, stanno decidendo di restare di più nei luoghi di origine e meno negli headquarter aziendali. La domanda che ci dobbiamo porre è come questa riorganizzazione del settore privato agevolerà la presenza, anche in aree come il sud, di persone con certe competenze che magari possono essere più attirate dal settore pubblico. L’impegno della pubblica amministrazione per l’assunzione di figure professionali nuove va oltre il Pnrr, perché nei prossimi anni mezzo milione di persone che lavorano nella pubblica amministrazione andranno in pensione.
La sfida è legata anche alla capacità della pubblica amministrazione di trasmettere innovazione e dinamismo, superando conservatorismi e lentezze ormai insopportabili.
Il settore delle infrastrutture e dei trasporti è caratterizzato da un’innovazione tecnologica e digitale straordinarie. Se un ministero come questo non ha le competenze per valutare qual è la vera innovazione e dove sono i game changer, ci si trova assediati dalle imprese che presentano soluzioni apparentemente straordinarie, ma difficili da valutare in profondità. Io mi sto battendo per la creazione all’interno del ministero di un nucleo di ricercatori e di tecnici, in rapporto costante con gli enti di ricerca nazionali e internazionali, per mettere il ministero sulla frontiera della regolazione e della legislazione. Pensiamo all’uso dei satelliti: oggi, fare trasporto senza pensare di integrare i dati satellitari non ha senso.
L’energia non è una competenza diretta del tuo ministero, ma quando si parla di mobilità, è coinvolta anche l’energia. Il nostro è un paese che non produce energia. C’è speranza di avere un’accelerazione nell’abbandono dei fossili verso energie di tipo diverso, gas, idrogeno, rinnovabili?
Questa è una discussione che non può non riguardare l’Europa nel suo complesso. Faccio un esempio: parlando di mobilità, il pensiero va subito alle automobili. A luglio, la Commissione europea proporrà una data limite, oltre la quale non sarà più possibile immatricolare auto a combustione interna, comprese le ibride. Alcuni paesi, come la Francia e la Spagna, hanno fissato il 2040. Gli inglesi e altri paesi nordici ancora prima. L’Italia dovrà fare una scelta. Il mercato oggi sta andando rapidamente verso soluzioni full electric. Il problema principale, come ha detto il Ministro Cingolani, è dotare le nostre strade, autostrade, di colonnine di ricarica. La tecnologia già esiste. Ben diverso è il caso del traffico pesante, tir, autocarri di grandi dimensioni. Qui l’elettrico non sembra essere la soluzione, probabilmente lo è l’idrogeno. Ma è una tecnologia diversa per cui dobbiamo immaginare punti di ricarica diversi.
Vogliamo parlare delle navi? Gli armatori stanno facendo uno sforzo straordinario per diventare più ecologici e oggi il gas sembra essere la tecnologia più a portata di mano. E poi parliamo degli aerei, dove gli sforzi per renderli più efficienti e meno impattanti sono enormi, ma i nuovi carburanti sono sempre combustibili fossili. Insomma, la sfida della trasformazione da qui al 2030 e oltre è una sfida tecnologica, organizzativa, politica, economica e sociale. L’anno scorso, l’agenzia del lavoro Ranstad ha mostrato che una delle figure più introvabili nel settore della logistica è il calcolatore di emissioni. Perché richiede competenze integrate fisiche e ingegneristiche, economiche e chimiche. La concorrenza ormai si fa anche sulla quantità di emissioni per chilo di merce. Infine, c’è un cambiamento culturale: l’ultima indagine dell’ACI (Automobile Club Italiano) mostra che solo 1 ragazzo su 8 oggi sogna di avere l’auto come status symbol, il che rende chiaro come il cambiamento di mentalità sia fortissimo.
Un’ultima domanda su Roma, la nostra capitale. Le capitali dei grandi paesi democratici occidentali hanno un ruolo importante nella promozione del brand del Paese. In Francia, per esempio, è chiara la co-gestione della capitale tra governo centrale, Presidente della Repubblica e Sindaco. In Italia, invece, la capitale è oggetto di contesa politica dura…
Credo che per le città abbiamo in Italia due problemi aggiuntivi rispetto agli altri. Il primo è che abbiamo una strategia nazionale per le aree interne, ma non una strategia nazionale per le città. Che è incomprensibile visto che sono principalmente le città che producono innovazione su ampia scala. Per questo, mi sto battendo per la ricostituzione del comitato interministeriale per le politiche urbane, che volle Fabrizio Barca nel 2012 con il governo Monti, mettendo lo sviluppo sostenibile al centro delle politiche. Molte città hanno adottato ormai l’Agenda 2030 dell’Onu per integrare le diverse politiche nella direzione della sostenibilità. Il governo deve fare altrettanto. Ho fatto fare una ricognizione di tutti i fondi nostri e di altri ministeri che riguardano in qualche modo la rigenerazione urbana e sono emersi una molteplicità di fondi non coerenti. Anche le città devono, da un lato, gestire emergenze, ma dall’altro programmare il futuro. Ho partecipato al progetto “Milano 2046”, ma quante città italiane fanno questo tipo di esercizio? Quasi nessuna, mentre le altre grandi città europee e mondiali lo fanno da tempo. Le idee non mancano, ma bisogna trasformarle in un piano strategico a 20/30 anni. I governi delle città devono sviluppare anche una serie di strumenti di soft policy che si aggiungono ai classici strumenti di governance, con l’obiettivo prioritario di offrire una visione della città di lungo periodo, così da essere strumento di orientamento anche per i capitali privati.
Ci siamo congedati dal Ministro con la certezza di aver incontrato un uomo che ce la metterà tutta per velocizzare i processi e consentirci così di assistere alla trasformazione profonda di un paese fino ad oggi sempre troppo lento. Auguri Ministro!
Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, cerca di portare al Governo la sua cultura aperta, internazionale, manageriale, europea. In questa intervista sincera ci fornisce qualche dettaglio della sua strategia.
Enrico Giovannini è un uomo ordinato, che trasmette precisione dell’analisi, riflessività nelle risposte, accuratezza nelle valutazioni, peraltro spesso nette, non negoziabili.
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