Senza cooperazione transnazionale, le migrazioni si trasformano in crisi e l’incapacità di governarle alimenta l’erronea percezione dell’invasione. Intervista a Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati
“Sono fiero di avere le mie origini nel volontariato, con le Ong, sul campo: non le ho mai dimenticate”. Parola di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Insieme a Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, e Fabiola Gianotti, Direttrice Generale del Cern, Grandi è l’italiano con il più alto incarico a livello internazionale. Dal 2016 guida l’UNHCR, l’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati che collabora in tutto il mondo con centinaia di Ong. Dal Libano al Pakistan, dal Bangladesh alla Colombia, sono numerose le realtà di crisi migratorie, distanti anni luce dalle problematiche europee. L’Europa e, in genere, l’Occidente si sono trovati totalmente impreparati nel gestire i fenomeni migratori dall’Africa e dall’Asia. In questa intervista esclusiva, Filippo Grandi racconta del ruolo delle Ong in merito all’accoglienza di rifugiati e migranti, e di come l’UNHCR interviene nel dare una risposta alle crisi globali.
Qual è il rapporto dell’UNHCR con le Ong?
Le Ong sono i partner più importanti dell’Agenzia. Abbiamo un partenariato con circa 850 organizzazioni in tutto il mondo: dalle più piccole, che lavorano nei campi profughi in Bangladesh, alla frontiera colombiana o in tanti Paesi africani, alle più grandi come Medici Senza Frontiere, CARE, Oxfam. Il rapporto dell’UNHCR con le Ong è estremamente vitale: attraverso queste organizzazioni, tramite le quali passano molte delle nostre risorse, vengono messi in atto i programmi dell’Agenzia Onu per i Rifugiati. Nel mondo, le Ong sono un attore umanitario fondamentale per lo sviluppo, rappresentano le società civili, aiutano le popolazioni, spingono per la costruzione della coscienza collettiva, quell’awareness che serve per formare il dibattito pubblico.
Le Ong sono, dunque, parte del sistema UNHCR?
Sì: sono una gamba di un corpo unico, del quale l’UNHCR è l’altra gamba. Sono parte della formulazione delle politiche, che va oltre la mera distribuzione del cibo o la costruzione di un ospedale. Le Ong hanno un ruolo maggiore nelle operazioni internazionali. Noi stessi abbiamo un rapporto dialettico con le organizzazioni non governative, discorso valido anche per le altre agenzie dell’Onu come l’Unicef e la Fao. Chiariamo un concetto: le agenzie sono formate dagli Stati membri. Le Ong sono organizzazioni private indipendenti. I singoli Stati spesso le appoggiano, altre volte le ostacolano, proprio perché prendono voce in maniera più forte rispetto a quanto possano fare le organizzazioni inter-governamentali o multilaterali.
Chi ha paura delle Ong?
La società civile, rappresentata dalle Ong, è il fondamento degli Stati. Può capitare che le organizzazioni non governative siano in disaccordo con i Governi, critiche e in posizioni contrarie agli esecutivi in materia di diritti e operazioni di soccorso. Ad esempio, il dibattito in Italia è limitatissimo, perché le Ong sono viste solamente come il principale attore di salvataggio in mare di migliaia di persone. Ma questa è una delle tante funzioni delle Ong, che operano in svariati campi: dai diritti delle donne alle questioni ambientali.
Come valuta il dibattito in Italia su migranti, rifugiati e Ong?
La risposta deve essere necessariamente obliqua in questo caso. Credo che sia importante sottolineare che viviamo in un mondo attraversato da grandi paure. Ad oggi, il processo di globalizzazione è arrivato ad un livello di maturità ed evoluzione tale da toccare tantissime persone e raggiungere una massa critica importante. Chi è fuori dal processo di globalizzazione si sente escluso, specie nel mondo ricco e industrializzato. Le paure sono relative alla perdita del lavoro, al rischio di un attentato terroristico, alla scomparsa dei valori più intimi che ci ancorano alla vita di tutti i giorni. Queste paure sono reali e radicate in un movimento che, purtroppo, è stato sottovalutato. Parlando del Mediterraneo, credo che certe visioni negative delle Ong che soccorrono in mare i migranti e i rifugiati derivino proprio da questa narrazione.
Ma qual è la verità dei fatti?
Andrebbe, anzitutto, sfatato il concetto di crisi. In Europa non è, infatti, in atto una crisi migratoria. Preoccupa semmai il tasso dei morti in mare, cresciuto parallelamente alle restrizioni poste alle operazioni di soccorso, in particolare quelle portate avanti dalle Ong. Nel 2018 è avvenuta quella che è una vergogna insanabile per il nostro continente: nel mar Mediterraneo sono decedute sei persone al giorno. I Paesi che in diverse fasi hanno ricevuto migranti e rifugiati sono stati lasciati soli: l’Italia, la Grecia, la Svezia, ora in numeri ridotti la Spagna. La Germania di Angela Merkel, ad esempio, non ha avuto un appoggio condiviso, che avrebbe aiutato il Paese a gestire meglio il fenomeno nel momento più drammatico, il 2015. In Europa, questi problemi sono molto più acuti di quanto dovrebbero essere e, per giunta, manipolati. I migranti e i rifugiati compiono ogni giorno, a milioni, scelte impossibili: arrancano ai margini della società, non hanno spesso uno status giuridico, vivono nella miseria assoluta. Intraprendere viaggi peraltro pericolosi verso altri Paesi può apparire come l’unica soluzione, soprattutto laddove il sostegno internazionale agli Stati di accoglienza è insufficiente, o nel caso in cui i diritti dei rifugiati sono limitati.
In che modo avviene la manipolazione del fenomeno migratorio?
L’isolamento degli Stati è, spesso e volentieri, una chiara volontà politica, mirata ad alimentare il consenso per fini elettorali. La polemica sull’essere rimasti soli non è risolutiva, si nutre di sé stessa: se ci fosse la soluzione, per alcuni sarebbe la fine di un argomento facilmente cavalcabile. La retorica politica nutre l’errata percezione dell’invasione, specialmente nei Paesi benestanti. La manipolazione coltiva le paure ad arte, si serve del linguaggio di odio e razzismo. Questo può avere conseguenze estreme come il brutale episodio avvenuto nelle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda.
Qualche dato sulle migrazioni?
È nella normalità della natura umana lo spostamento migratorio delle persone tra Stati e continenti. Diventano fenomeni anormali quando questi sono causati da guerre, violenze, persecuzioni e malgoverno. In questo caso, le persone si spostano perché sono obbligate a farlo per poter sopravvivere. Sono circa 70 milioni i rifugiati e gli sfollati, dunque rifugiati nei loro stessi Paesi. Tra questi, 25 milioni vanno alla ricerca di protezione internazionale dopo aver attraversato non una ma persino più frontiere. Il numero di rifugiati è, per altro, raddoppiato rispetto agli anni passati. Questi numeri, in Europa, sono stati visti in minima parte: infatti, il fenomeno del forced displacement riguarda in stragrande maggioranza il sud del mondo. Otto rifugiati su 10, che fuggono da realtà statuali fragilissime e in conflitto, vengono accolti in Stati con risorse limitate, ovvero poveri o a reddito medio. In quei Paesi in guerra vivono più di 40 milioni di sfollati che non hanno voluto o potuto varcarne le frontiere.
Ci sono casi eclatanti che rendono l’idea di una vera e propria crisi migratoria?
Partiamo dal caso della Siria, molto dibattuto e vicino a noi in termini geografici. Otto anni di guerra, un conflitto devastante che ha ridotto in macerie il Paese: è scappata quasi la metà della popolazione pre-bellica. Tra questi, cinque milioni di rifugiati sono nei Paesi vicini, un milione è emigrato in Europa e altrove. Turchia, Libano, Giordania, Iraq ed Egitto hanno accolto la maggioranza dei profughi siriani, che portano avanti una vita divenuta battaglia quotidiana, appoggiati dagli sforzi immani delle comunità urbane che li hanno accolti. Alla fine del 2017, più di sei milioni di persone sono fuggite dalla Siria. La sola Turchia ne ospita oltre tre milioni. La seconda popolazione di rifugiati più numerosa proviene dall’Afghanistan: 2.6 milioni nel 2017. Viene poi la gente del Sud Sudan, pari a 2.4 milioni, ospitata tra Uganda, Sudan, Etiopia, Kenia e Repubblica Democratica del Congo. Il Libano è il Paese che ospita la più grande comunità di rifugiati rispetto al numero dei cittadini: 164 ogni mille abitanti, la quarta popolazione di rifugiati in tutto il mondo. Inoltre, i rifugiati sotto il mandato dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei palestinesi, sono attorno ai cinque milioni.
E in sud America?
Non dimentichiamoci della Colombia: nel Paese sudamericano si registrano imponenti flussi migratori provenienti dal Venezuela. La Colombia vive un momento difficile, sta provando a uscire da un conflitto civile durato per decenni. Nel corso di una nostra missione sul posto, una comunità di sfollati colombiani vicino a Cúcuta, esiliata all’interno del proprio Paese dal lungo conflitto tra governo e gruppi armati, ci ha spiegato come si era organizzata per condividere le scarse risorse con i venezuelani in arrivo attraverso la vicina frontiera. Sono più di tre milioni e mezzo le persone in fuga dal Venezuela: l’impatto della crisi si è ormai esteso all’intera regione.
Esiste una soluzione ai flussi migratori?
I patti globali servono proprio per condividere le responsabilità dei singoli Stati che affrontano la gestione delle migrazioni. Nel dicembre 2018 sono stati votati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite due global compact: uno sui rifugiati, l’altro sui migranti. I due patti sono originati dalla stessa iniziativa, il vertice di New York del 2016, concluso con una dichiarazione che proponeva due documenti sulle categorie, distinte giuridicamente, di rifugiato e migrante. Questi status sono riferiti a diverse categorie di persone che, però, sono accomunate dallo stesso destino: i rifugiati che prendono la scelta di intraprendere viaggi pericolosi, a rischio della vita, condividono la stessa esperienza dei migranti, partiti per altre ragioni. Il patto sui rifugiati è stato sviluppato dall’UNHCR in consultazione formale con gli Stati e in accordo informale con le Ong. Quello sui migranti è stato condotto direttamente dagli Stati e, in particolare, le trattative sono state gestite da Svizzera e Messico, in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, Oim. Il passaggio è significativo, perché i due processi di approvazione dei patti hanno seguito due iter istituzionali diversi.
In cosa consiste il patto sui rifugiati?
Lo scopo del patto sui rifugiati è quello di avere maggiore condivisione delle persone con questo status. Attorno al compact sui rifugiati c’è stato grande consenso: nonostante la situazione sia difficile, è radicata la sensibilità verso le persone definite rifugiate, si capisce il loro bisogno di protezione umanitaria. Col patto sui rifugiati si eleva la gestione di questo fenomeno, passando da un sistema nel quale Onu e Ong rispondevano direttamente alle necessità di questo segmento di popolazione, ad un’azione concertata con altri attori del mondo finanziario, istituzioni pubbliche e private, mondo universitario. Per capire come poter sviluppare il nuovo modus operandi, abbiamo portato avanti una sperimentazione con questo approccio in 15 Paesi dell’Africa e dell’America Latina.
E il patto sui migranti?
Il patto sui migranti, d’altro canto, ha trovato diversi ostacoli perché si è diffusa l’erronea percezione che ci potesse essere una limitazione della sovranità dello Stato. l’Italia, ad esempio, non ha aderito al compact sui migranti: questo per me è un grave errore. Se c’è un Paese che da tempo ha propugnato l’esigenza di maggiore condivisione, quel Paese è proprio l’Italia che, col Governo in carica, avrebbe potuto cavalcare il risvolto positivo di questa iniziativa. L’Italia, con i patti, ha tutto da guadagnarci, avendo bisogno di più condivisione sia sul lato rifugiati che su quello migranti. Se l’affermazione del sentirsi isolata è vera, l’Italia non dovrebbe allontanarsi dalle decisioni prese insieme agli altri partner internazionali. In definitiva, pochi Paesi più dell’Italia possono trarre beneficio da un rafforzamento della cooperazione internazionale in questo campo. Quella europea è solo l’ultima risacca di un movimento globale, ed è bene ricordare che la grande maggioranza dei migranti utilizza canali regolari.
La cooperazione potrebbe essere risolutiva nella gestione dei fenomeni migratori?
Dietro lo status di rifugiato e migrante ci sono le persone. Questo punto di partenza ci deve imporre un approccio differenziato ma coerente, che assicuri protezione ai rifugiati in conformità al diritto internazionale, tutelando la dignità e i diritti di tutte le persone in movimento, con un occhio particolare verso i più vulnerabili. La differenziazione tra rifugiati e migranti è stata realizzata non per dare maggior peso a una o all’altra categoria, ma per meglio tutelare le singole esigenze: una gestione efficace delle frontiere sarebbe in grado di rispondere maggiormente al fenomeno. Data la natura transnazionale dei flussi misti, la cooperazione tra Stati, sia a livello regionale che internazionale, sarebbe auspicabile. Senza cooperazione, infatti, le migrazioni si trasformano in crisi: una fenomenologia seria e complessa come la migrazione verso l’Europa è fondamentalmente gestibile, ma si è rivelata ingestibile a causa della mancanza di coordinamento a più livelli.
Con l’approvazione del global compact sui rifugiati è avvenuto un cambio di approccio relativamente al conferimento delle risorse?
Partiamo dal principio: l’UNHCR, l’Agenzia Onu per i Rifugiati, mobilita ogni anno 4 miliardi di dollari. Dalla dichiarazione di New York, che ha dato il via all’iter per i due patti, a oggi sono stati mobilitati sei miliardi e mezzo di dollari di nuove risorse, in gran parte bilaterali, che vanno direttamente agli Stati che ospitano i rifugiati. Tali risorse, accumulate grazie ai nuovi strumenti finanziari della Banca Mondiale, sono un complemento importantissimo alle risorse annuali dell’UNHCR e delle agenzie umanitarie, essendo più adatte ad affrontare quegli aspetti delle crisi di rifugiati che sono a lungo termine. Ad esempio, l’educazione e la formazione, l’impatto sull’ambiente, le energie sostenibili, il supporto alle comunità locali che ospitano i rifugiati. Il dibattito in Europa è un po’ congelato per via delle elezioni europee: spero che al termine delle consultazioni si possa parlare con più serenità delle questioni migratorie. Bisogna calmare il dibattito politico se vogliamo realmente agire con fatti concreti: condivisione, integrazione, rientro in patria di chi non è rifugiato. Questi elementi ci permetterebbero di gestire meglio il problema. Grazie al dibattito che ha portato all’adozione dei patti su rifugiati e migranti sento una nuova energia, stiamo attuando un metodo di lavoro estremamente positivo.
Politiche comuni concertate tra Stati, coordinamento all’interno di un framework prestabilito, approvazione dei patti su rifugiati e migranti dimostrano che la comunità internazionale può gestire i fenomeni migratori, senza che questi si trasformino in caos come nel caso Europa. L’ingovernabilità dei flussi migratori alimenta l’erronea percezione dell’invasione, nonostante i numeri dimostrino l’esatto contrario. Filippo Grandi ha dedicato tutta la vita all’aiuto delle persone in difficoltà e degli emarginati, attività che continua con vigore, guidando l’agenzia delle Nazioni Unite che più risponde con immediatezza e rapidità alle emergenze globali dei rifugiati e dei migranti.
@melonimatteo
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Senza cooperazione transnazionale, le migrazioni si trasformano in crisi e l’incapacità di governarle alimenta l’erronea percezione dell’invasione. Intervista a Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati
“Sono fiero di avere le mie origini nel volontariato, con le Ong, sul campo: non le ho mai dimenticate”. Parola di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Insieme a Mario Draghi, Presidente della Banca Centrale Europea, Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, e Fabiola Gianotti, Direttrice Generale del Cern, Grandi è l’italiano con il più alto incarico a livello internazionale. Dal 2016 guida l’UNHCR, l’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati che collabora in tutto il mondo con centinaia di Ong. Dal Libano al Pakistan, dal Bangladesh alla Colombia, sono numerose le realtà di crisi migratorie, distanti anni luce dalle problematiche europee. L’Europa e, in genere, l’Occidente si sono trovati totalmente impreparati nel gestire i fenomeni migratori dall’Africa e dall’Asia. In questa intervista esclusiva, Filippo Grandi racconta del ruolo delle Ong in merito all’accoglienza di rifugiati e migranti, e di come l’UNHCR interviene nel dare una risposta alle crisi globali.