Le armi informatiche delle procure – L’inchiesta [Parte 1]
Ci sarebbero diversi modi per velocizzare i tempi della giustizia, spiega il procuratore Giovanni Russo, n. 2 di Antiterrorismo e Antimafia. Ad esempio, potenziare le indagini per ridurne i tempi


Ci sarebbero diversi modi per velocizzare i tempi della giustizia, spiega il procuratore Giovanni Russo, n. 2 di Antiterrorismo e Antimafia. Ad esempio, potenziare le indagini per ridurne i tempi
Per capire a quale livello di potenza riescono ad arrivare le mafie, Giovanni Russo, procuratore aggiunto della Direzione nazionale Antimafia e Antiterrorismo, uno dei massimi esperti al mondo di tecnologie digitali preposte al contrasto del cyber-crimine e della nuova dimensione della criminalità organizzata transnazionale, cita alcuni fatti recenti che si sono verificati nei vicoli e nel centro di Napoli. “In questa città e nel circondario ci sono delle scorribande di criminali a bordo di motociclette che piombano il giorno o la sera in mezzo al traffico e cominciano a sparare con armi automatiche in aria, seminando il panico. Poi, man mano che la gente si abbassa o si butta a terra abbassano il tiro fino a far stendere a terra completamente i malcapitati. Questo divertimento crudele serve a rappresentare anche plasticamente il predominio dei clan sugli abitanti dei quartieri, la loro volontà di sottomissione alla legge del crimine”. Ma prima di parlare di come vanno contrastati oggi i clan parliamo della riforma della giustizia, tema che sta a cuore a questo magistrato di prima linea.
La ragionevole durata dei processi oggi è uno dei principali problemi della giustizia. Quali potrebbero essere le riforme necessarie per rimediare a un problema tutto italiano?
La ragionevole durata dei processi è un principio espresso costituzionalmente ed è il portato non solo di un movimento dottrinale, ma anche giurisprudenziale, di tipo garantistico. Va dunque rafforzato. Significa che il momento in cui iniziano le indagini deve essere ravvicinato a quello in cui hanno una conclusione. Ma la prescrizione è uno strumento non adeguato a tale scopo. L’obbiettivo dovrebbe essere quello di fare presto e bene le indagini e di sottoporre rapidamente il loro esito a un giudice. Questo reclamano i princìpi, questo è quanto si aspettano i cittadini. Il problema sorge perché le indagini sono lunghe (a volta lunghissime) e spesso iniziano molto tempo dopo la commissione del reato. Si ricorre, dunque, alla prescrizione, come rimedio. Non si riesce ad assicurare tempestività ed efficienza alla giustizia e allora, per non lasciare la spada di Damocle su un soggetto che rischia di vedersela cadere in testa a distanza di anni, si decide di rinunciare a perseguire il reato. La prescrizione sancisce il fallimento della giustizia, ma è anche uno strumento di garanzia. Risponde all’esigenza di certezza nelle relazioni giuridiche, sia in campo penale che civile. Nel campo penale, decorso un certo lasso di tempo, si perde l’utilità dissuasiva, repressiva e rieducativa della funzione della pena.
La prescrizione in Francia e in Germania si blocca a ogni azione giudiziaria. In Inghilterra non è mai esistita. L’Italia invece la prevede. È perché siamo la culla del diritto e siamo più avanzati dal punto di vista giudiziario o ci sono altre ragioni? C’è chi sostiene che la prescrizione è un istituto di civiltà giuridica. Significa che i sudditi di Elisabetta sono incivili?
I Paesi che lei cita hanno un ordinamento diverso dal nostro e pure prevedono strumenti come i “time limits” per garantire un “processo giusto” (due process of law). In Italia abbiamo l’obbligatorietà dell’azione penale. Un magistrato italiano, di fronte a una qualunque denuncia, deve procedere per accertare il fatto ed eventualmente portarlo in sede dibattimentale. Questo comporta che per molto tempo la procura e il tribunale sono costretti a occuparsi di moltissimi fatti (abbiamo un processo penale elefantiaco). Ciò porta all’ingolfamento delle procure e delle aule di giustizia e un rallentamento complessivo dell’apparato giudiziario. L’ho detto prima, la prescrizione non solo solleva il reo dalla tardiva pretesa punitiva dello Stato in relazione ad un reato commesso anni e anni fa, ma sgrava anche procure e tribunali di un carico di lavoro eccessivo. Lasciandoli liberi di indagare su reati più recenti o più gravi.
La prescrizione dunque è una sorta di artificio per ridurre i tempi organizzativi o spingere ad accelerare i tempi della giustizia.
In parte sì. La prescrizione in realtà non è un problema in sé. È solo un cattivo rimedio. Nelle recenti proposte di modifica di questo istituto, la sua “sterilizzazione” avviene dopo il giudizio di primo grado. In realtà il vero problema è far durare meno le indagini e il dibattimento di primo grado. Bisognerebbe concentrare gli sforzi per arrivare a una condanna o un’assoluzione il prima possibile, in modo adeguato alle esigenze della giustizia e alle garanzie dell’imputato, non certo in maniera sommaria ed affrettata. Se noi riuscissimo a rendere rapide le fasi delle investigazioni e delle indagini, sfoltiremmo le attività dibattimentali, incentivando i riti alternativi (l’imputato che sa di essere colpevole capirebbe che è vantaggioso il ricorso al patteggiamento). Negli Stati Uniti solo il 5% dei casi arriva al dibattimento. Tutti gli altri casi vengono definiti con riti alternativi.
Lei si occupa di contrasto alle mafie e al terrorismo. Quali riforme si sentirebbe di sollecitare per arrivare a un’azione più efficace delle procure?
Nell’ambito del potenziamento delle indagini bisogna investire maggiormente sull’uso delle nuove tecnologie. Non è possibile che le tecnologie informatiche di ultimo grido siano soltanto appannaggio dei grandi gruppi criminali. Questi ultimi dispongono di enormi risorse per dotarsi di software, hardware e tools basati sull’intelligenza artificiale, molto più di quanto faccia la giustizia. Ormai la criminalità organizzata transnazionale e certe organizzazioni mafiose sono entrate in possesso di sistemi digitali paragonabili a quelli propri degli apparati militari e delle agenzie di sicurezza nazionale. È sintomatica l’intercettazione di un indagato che dice: “Tutti si vantano di assumere giovani che sanno fare pum pum, io preferisco giovani che fanno clic clic”. Si fa un merito nell’assumere esperti informatici nella propria organizzazione anziché picciotti o killer, perché sono molto più efficaci e utili agli scopi e agli interessi criminali e, più specificamente, al business delinquenziale di cui si occupa.
Di quali nuove armi informatiche avrebbe bisogno l’autorità giudiziaria?
Dovrebbero essere sfruttate meglio (ossia più sistematicamente e in maniera coordinata) le banche dati di cui il Paese già dispone, utilizzandole, ovviamente, con gradazione di accessi (non c’è certo alcun bisogno di creare una sorta di Grande Fratello). La nostra vita è sempre più contrassegnata dalle tracce digitali che noi ci lasciamo dietro.
Come un Pollicino digitale?
In un certo senso sì. Pensi alla pratica degli user generated contents, propalati sulla Rete, che trovano la loro creazione negli stessi consumatori. Tutto viene utilizzato dal marketing e dalla pubblicità, perfino i selfie che postiamo sui social o ci scambiamo tra amici. Siamo ormai immersi in queste attività. Postiamo su Facebook o Instagram dettagli della nostra vita privata. Questi stessi dettagli vengono utilizzati da ogni genere di agenzie di profilazione, ma ci irrigidiamo quando immaginiamo che debbano essere conosciuti per scopi di giustizia e dunque per la nostra sicurezza, magari per far luce per reati molto gravi. Le nostre case hanno le pareti di vetro, ma ci lamentiamo se lo stesso accesso avviene tramite provvedimento motivato per scoprire reati gravi. Una delle piaghe importanti del nostro Paese è la corruzione. Ora c’è uno strumento molto importante per combattere corruzione e riciclaggio che è dato dal “mondo di mezzo” delle intermediazioni finanziarie…
Follow the money, diceva Falcone, per esemplificare l’attività di indagine nei confronti di Cosa Nostra…
Follow the money, esattamente. Gli intermediari economici (bancari, commercialisti, assicuratori, avvocati, broker, consulenti finanziari etc.) possono assistere a movimentazioni di denaro sospette, come − per fare esempi grossolani – i casi di chi si presenta tutti i giorni per due mesi di fila per versare mille euro, per aggirare le norme antiriciclaggio, o la vecchietta che deposita 200 mila euro sul proprio conto di pensionata. Le operazioni sospette e il nome di chi le ha effettuate vengono forniti all’Unità di informazione finanziaria (UIF). Noi in Procura nazionale antimafia abbiamo creato un meccanismo di “matching”, un confronto informatico tra tutti questi nominativi criptati, centinaia di migliaia all’anno…
Criptati?
Esattamente. Qui sta il punto. I nomi sono criptati, ovvero non conoscibili da noi. Ma il computer è in grado di confrontare centinaia di migliaia di informazioni con i data base degli individui già sottoposti ad indagine oppure con collegamenti con la criminalità mafiosa o terroristica. Se si ottiene un matching, ovvero l’accoppiamento delle informazioni, automaticamente l’informazione viene passata alla procura competente. Questa nostra attività è stata individuata come best practice anche dagli organismi internazionali preposti a verificare il livello di contrasto al riciclaggio e alla corruzione del nostro Paese e menzionata come esempio virtuoso di indagine per tutti gli Stati del mondo. Ma il bello è che è tutto criptato e dunque, finché non si verifica il collegamento con un procedimento penale, nessuno conosce i nominativi elaborati dal computer. È un servizio che offriamo alle procure distrettuali (che si occupano di mafia, terrorismo, narcotraffico, etc.). Non sono ancora riuscito a spiegarmi perché mai il Governo e il Parlamento, dovendo dare attuazione alla V Direttiva antiriciclaggio, abbiano respinto l’idea di estendere detto strumento anche ai reati di corruzione o grande evasione fiscale. La conseguenza è che oggi, se un amministratore pubblico riceve un bonifico ritenuto sospetto e segnalato all’UIF, tale informazione non viene elaborata tempestivamente, ma viene passata ai corpi di polizia che la approfondiscono insieme con le altre 100mila segnalazioni loro trasmesse. E non possono sapere che quell’amministratore, magari, è indagato per corruzione, per cui quella informazione, se immediatamente comunicata al procuratore procedente, non solo costituirebbe un fondamentale elemento di prova, ma potrebbe addirittura portare al sequestro della somma. Attualmente c’è una grande sotto-utilizzazione delle informazioni che la Procura nazionale antimafia può offrire alle procure di tutta Italia.
La mafia è sempre più globalizzata. Si sono fatti progressi sul piano della cooperazione internazionale?
Oggi abbiamo la possibilità di emettere l’ordine di indagine europeo e di commissionare l’indagine a uno Stato europeo senza rogatoria. Possiamo organizzare squadre investigative internazionali, formate da investigatori provenienti da più Stati. Strumenti straordinari, ma non bastano. L’idea forte è quella di realizzare una fase ulteriore. Gli strumenti attuali rispondono a un’esigenza di scambio di informazioni. Ma dobbiamo essere in grado, in territorio europeo (e, perché no, extraeuropeo), di utilizzare quelle informazioni in maniera radicalmente innovativa: non solo metterle a disposizione dei magistrati che ce ne fanno richiesta, ma realizzare delle piattaforme di informazioni “condivise”. Passare da un sistema di “information exchange” a piattaforme di “information sharing”. Perché la comunità criminale è più veloce a internazionalizzarsi. Non abbiamo a che fare solo con gruppi, ma con vere reti criminali. I container carichi di droga a bordo di navi che si aggirano nel Mediterraneo sono in grado di sbarcare nei porti del Pireo o di Amsterdam o di Gioia Tauro a seconda delle convenienze, grazie a un sistema criminale reticolare di controllo e a una regia che può cambiare di ora in ora. Nuove tecnologie e nuove metodologie investigative e cooperative renderanno rapide ed efficaci le attività di investigazione e di indagine, la vera priorità. Se chiudiamo le indagini in 6 mesi per i processi ordinari e in 24 mesi di quelli per mafia e riusciamo a portare un decimo delle indagini al dibattimento, definendo prima tutti gli altri casi con i riti alternativi, potenzieremo l’intera giustizia penale. Si avrà la certezza dell’innocenza o meno dell’indagato, con grande beneficio per lui e per l’intera comunità. Ma soprattutto avremo molto meno del 50% dei nostri detenuti in attesa di giudizio in carcere. In cella ci deve andare solo chi è colpito da una sentenza di condanna almeno in primo grado. Oppure è gravemente indiziato di crimini molto gravi, tanto da rappresentare un pericolo sociale. Anche perché in questo modo si restituirà alla detenzione il suo vero significato di luogo ove attuare il processo di rieducazione sancito dalla Costituzione, sottraendola all’attuale condizione di “parcheggio” o, peggio, “campus” ove realizzare un apprendistato della criminalità.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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