«Speculazioni sulla successione dopo la notizia che Khamenei è stato ricoverato in serie condizioni», titolava a inizio marzo il Jerusalem Post. «Khamenei soffre di un cancro alla prostata – proseguiva l’articolo – che si racconta si sia diffuso in tutto il corpo».
Dopo smentite ufficiali e voci sulla presunta gola profonda – il team di medici russi appositamente chiamati per curarlo – lo stato di salute della Guida Suprema dell’Iran rimane avvolto nel mistero. Le conseguenze di una improvvisa morte dell’Ayatollah sarebbero molto importanti e su diversi scenari: la trattativa in corso sulla questione nucleare con il 5+1 (Gli Stati membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania), i rapporti con Israele, non ultimo lo scontro in corso tra Teheran e Riad che, seguendo la faglia lungo cui si scontrano sunniti e sciiti, attraversa molti Stati del Medioriente.
«Gli allarmismi di questi ultimi giorni sono eccessivi. Si tratta di una strategia, a mio parere, per influenzare la trattativa sul nucleare in corso», racconta Pejman Abdolmohammadi, docente di studi mediorientali in Italia e all’estero e profondo conoscitore dell’Iran. «Si vuole far credere che con la scomparsa, ormai prossima, di Khamenei l’Iran sarebbe ancora più aperto al dialogo verso l’Occidente, per incentivare la conclusione positiva del negoziato in corso. Questo mi pare il piano di una parte dell’establishment persiano: cercare di consolidare la Repubblica Islamica – attraversata da scricchiolii sempre più forti – facendola uscire dall’isolamento internazionale e rilanciando, grazie alla fine delle sanzioni, l’economia. Questa parte, la “opposizione di velluto” riconducibile al presidente Rohani e all’ex presidente Rasfanjani, ha un approccio più pragmatico e meno ideologico dei “falchi” vicini a Khamenei, ma hanno l’obiettivo comune di preservare la teocrazia e spesso fanno un gioco delle parti».
Non tutti sono però convinti che quelle sulla malattia di Khamenei siano esagerazioni. In ambienti diplomatici italiani alcuni ritengono che le varie correnti della Repubblica Islamica non stiano affatto giocando a rimpiattino con le diplomazie occidentali ma, al contrario, affilando le armi in vista del prossimo scontro. Il rischio, o l’opportunità a seconda del punto di vista, sarebbe che invece di incentivare il negoziato sul nucleare mostrando un volto meno minaccioso al mondo, la tensione tra fazioni iraniane si scarichi sulla trattativa facendola naufragare. Anche la notizia dell’elezione, dopo mesi di vacanza, a capo dell’Assemblea degli esperti – l’organismo che elegge la Guida Suprema – dell’ayatollah ultraconservatore Mohammad Yazdi è secondo alcuni un indizio: la fazione dei falchi ha voluto mettere in una posizione strategica una propria pedina proprio in vista dell’eventuale morte improvvisa di Khamenei. Non avrebbe avuto senso forzare la mano, considerato che l’Assemblea verrà rinnovata l’anno prossimo, se non ci fossero state delle serie preoccupazioni di un improvviso vuoto di potere al vertice. Un analista che conosce da vicino la struttura politica dell’Iran, citato dal Guardian a condizione dell’anonimato, già alcuni mesi fa spiegava: «Non si può sottovalutare l’importanza dell’Assemblea degli esperti. Alla fine sono proprio loro che decidono la prossima Guida Suprema, a meno che non ci sia un colpo di Stato. Chi succederà a Khamenei dipenderà da chi sarà più forte nell’assemblea al momento della sua morte, e quali forze avranno il potere a Teheran». Accenno quest’ultimo ai Pasdaran (le guardie rivoluzionarie – tradizionalmente conservatrici – potenza militare ed economica del Paese), al clero sciita e alle altre forze organizzate del Paese.
Ma non è solo sul fronte iraniano che la situazione è in fase di evoluzione. Negli Stati Uniti 47 senatori repubblicani su 54 hanno firmato una lettera indirizzata a Teheran – un fatto senza precedenti – per smentire la linea dialogante del Presidente Obama e sottolineare come eventuali impegni presi non sarebbero vincolanti per il suo successore. Questo a distanza di pochi giorni dall’aver invitato il premier israeliano Netanyahu – storicamente molto duro con l’Iran – a tenere un discorso al Congresso. Mosse tese a sabotare la trattativa Washington-Teheran – che potrebbe avere improvvise accelerazioni nelle prossime settimane e su cui è difficile prevedere come potrebbe impattare un’eventuale scomparsa di Khamenei – e a posizionarsi in una prospettiva di medio periodo.
«Il punto, secondo me, è proprio questo: non penso ci sarà una prossima Guida Suprema in Iran dopo Khamenei», afferma ancora Abdolmohammadi. «Magari Obama e Rohani riusciranno anche a concludere un accordo sul nucleare nelle prossime settimane, ma questo non impedirà il crollo della Repubblica Islamica in un periodo che si può collocare tra il 2017 e il 2022. In primo luogo il prossimo presidente americano è probabile, in caso di vittoria repubblicana o anche di Hillary Clinton, che torni alla politica del “regime changing” per l’Iran. Poi la situazione geopolitica regionale è destinata a cambiare nei prossimi anni: finora, e forse ancora per un po’, l’Iran ha avuto il vento nelle vele per via della guerra all’Isis – nemico comune con l’Occidente – che gli ha consentito di guadagnare terreno e simpatie internazionali, per la situazione di caos in cui si sono trovate diverse potenze regionali dopo le Primavere Arabe (Egitto in primis) e per il conseguente appannamento del rivale regionale saudita. Infine, e secondo me fattore più importante, il regime potrebbe cadere per fattori interni: la generazione degli attuali trentenni arriverà in molti gangli del potere nei prossimi anni, e questi giovani sono in molti casi già andati oltre la Repubblica Islamica e in generale l’Islam politico. Adesso siamo nel primo tempo», conclude con una metafora sportiva Abdolmohammadi, «e sembra che Rohani con la sua “opposizione di velluto” stia vincendo la partita, ma credo che nel secondo tempo le cose siano destinate a cambiare drasticamente».
«Speculazioni sulla successione dopo la notizia che Khamenei è stato ricoverato in serie condizioni», titolava a inizio marzo il Jerusalem Post. «Khamenei soffre di un cancro alla prostata – proseguiva l’articolo – che si racconta si sia diffuso in tutto il corpo».