Roma celebra le registe iraniane. E la capofila Rakhshan Bani-Etemad ci racconta il suo cinema sociale, che ha come protagonisti i più poveri. In prima fila a lottare per la giustizia in Iran ci sono donne sempre più determinate, dice. «E quando la richiesta è più precisa, la risposta deve essere adeguata»
«Prima ci dicevate che c’era la guerra, poi le difficoltà delle sanzioni… Ma come pensate di poter fotografare il dolore che c’è dentro di noi? E a chi lo farete vedere questo film? Pensate davvero che i politici lo possano capire?» Suonano più o meno così le ultime battute, rivolte a chi la riprende con la telecamera, della protagonista di Under the Skin of the City di Rakhshan Bani-Etemad, la first lady del cinema iraniano che è stata la protagonista a Roma, insieme ad altre due più giovani registe – Narges Abyar e Ida Panahandeh – della breve Rassegna Tre Donne, organizzata al Maxxi da Asiatica (che torna nella capitale dal 4 al 10 ottobre) e Fondazione Cinema per Roma Cityfest.
Il film è del 2001, ma come gli altri di Bani-Etemad presentati a Roma appare tuttora – con l’economia iraniana morsa dall’offensiva trumpiana e dalle nuove sanzioni che già mostrano i loro pesanti effetti senza nemmeno essere ancora in vigore – straordinariamente attuali. La protagonista Touba – operaia con quattro figli e un marito inabile al lavoro – è una donna volitiva e forte, che assurge a simbolo di quella povera gente che a malapena arriva a fine mese, tra disoccupazione e tossicodipendenze giovanili, e magari anche il rischio di perdere tutti i propri averi a causa di società immobiliari o finanziarie senza scrupoli.
Un ritratto della classi povere nella società iraniana valido allora, come all’epoca di Mahmoud Ahmadiejad, presidente dal 2005 al 2013. Durante il mandato di quest’ultimo ha preso forma Tales (2014), premio per la miglior sceneggiatura a Venezia, che ha atteso però anni prima di vedere la luce e poi l’autorizzazione ad uscire nelle sale iraniane – ottenuta solo, ma non subito, con il successivo governo del moderato Hassan Rouhani. «Finchè non ho il permesso di mostrare un mio film in Iran io non voglio portarlo all’estero – dice la regista in proposito – il mio primo pensiero va al mio popolo».
Touba (l’energica e intensa Gholab Adineh) ritorna anche in quest’ultimo lungometraggio, come altri personaggi che – dice la regista parlando con il pubblico a Roma – hanno continuato a viverle accanto, e che lei ha voluto ritrovare «per vedere nel frattempo cosa fosse loro successo». Mentre viaggia in un minibus per andare a trovare il figlio in carcere, Touba si trova a fare da portavoce per un piccolo gruppo di disoccupati, licenziati tutti dalla stessa fabbrica e in viaggio per chiedere giustizia.
Un cinema, quello di Bani-Etemad, che dunque indaga sul sociale con un realismo senza fa sconti. «Affrontare con realismo le questioni sociali è il solo modo per me di poter fare cinema – conferma la regista parlando con eastwest.eu – in una situazione come la nostra non si può fare solo arte per l’arte, il cinema è uno strumento per migliorare la società». Ha avuto problemi, nel fare cinema in questo modo in Iran? «Ne ho avuti, come tanti altri». E farebbe dire oggi le stesse cose, alla sua protagonista? «Sì, anche oggi. La condizione di persone come lei non è cambiata, anzi ora è ancora peggiore». Colpa dell’America di Trump? «Gli Usa hanno chiaramente una responsabilità, ma ci sono anche atri fattori – risponde senza voler precisare di più -. Ed è doloroso vedere il mio popolo passare ora attraverso tanti problemi».
Tra questi, come emerge dalle cronache di questi mesi, il crollo del valore del rial e un mercato del lavoro ancora più asfittico, per l’impossibilità degli investitori esteri di dare seguito agli accordi presi con l’Iran dopo l’intesa sul nucleare del 2015, appena stracciata da Trump. Ma se gli iraniani sono abituati da decenni a fronteggiare le difficoltà, le donne sono nel frattempo cambiate: «Ora hanno imparato ad avere una voce più forte nel porre i problemi – risponde Bani-Etemad – e quando la richiesta è più precisa, anche la risposta deve essere adeguata».
Sono i giorni dei Mondiali in cui la squadra iraniana si è battuta come un leone, fino all’onorevole uscita dopo il pareggio con il Portogallo; giorni in cui, finalmente, le donne sono state ammesse allo stadio per vedere insieme ai tifosi uomini, seppure solo sul grande schermo, le partite della nazionale in Russia. Una conquista storica per le donne iraniane dopo decenni di battaglie, in un momento in cui le autorità sentono tutta la pressione del malcontento e del disagio sociale sfociato nelle diffuse proteste di dicembre e che è continuato a riaffiorare, con altre dimostrazioni circoscritte e settoriali, anche in questi ultimi mesi. Fino alle manifestazioni più recenti, quelle dei commercianti del bazar che hanno allargato il fronte sociale della protesta – anche se, secondo vari analisti, sulla spinta di forze ultraconservatrici ostili a Rouhani.
Attiva come regista dal 1985 – «quando le donne lavoravano solo con la tv e si pensava che ci volesse anche un uomo, accanto ad una donna» alle prese con un lungometraggio – Rakhshan Bani-Etemad consiglia ora alle giovani registe apparse sulla scena di «essere determinate», e «molte già lo sono». Lei, da parte sua, sta lavorando ad un nuovo progetto sulla figura di Turan Mirhadi, insegnate e pedagogista innovativa scomparsa due anni fa: «una delle prime donne istruite in Iran, con studi alla Sorbona, un personaggio straordinario che sapeva trasformare in una opportunità qualunque motivo di pena».
E intanto con lei, al Maxxi di Roma, due registe della nuova generazione hanno raccontato il loro Iran. Quello di un triangolo amoroso e della forza della istituzione familiare Ida Panahandeh in Israfil (2017); quello della guerra vista attraverso il sacrificio delle madri e gli occhi sognanti dei bambini di Narges Abyar in Track 143 (2013) e Breath (2016) – quest’ultimo il primo film diretto da una donna candidato all’Oscar.
«Se non fosse stato per Rakhshan Bani-Etemad, la mia generazione di registe non esisterebbe», è stato il tributo di Ida Panahandeh, che tuttavia ritiene che i giovani iraniani siano molto più distanti dai loro genitori di quanto non pensi l’autrice più anziana. Le giovani donne sono anche loro molto forti, osserva, ma «la nuova generazione di adolescenti si vuole liberare delle tradizioni, non è più romantica e non cerca legami duraturi. I giovani iraniani ora sono molto simili ai loro coetanei di tutto il mondo, vogliono solo vivere, divertirsi».
Vogliono una vita normale e sperano che la crisi economica finisca, prosegue, anticipando il timore che per l’Iran ci saranno ora «giorni e notti molto difficili». Gli iraniani tuttavia – conclude, rispondendo ad una domanda su chi, dall’esterno, vorrebbe sfruttare il malcontento per indurre un regime change – sono in grado di discernere e non si lasceranno facilmente trascinare.
@lb7080


Roma celebra le registe iraniane. E la capofila Rakhshan Bani-Etemad ci racconta il suo cinema sociale, che ha come protagonisti i più poveri. In prima fila a lottare per la giustizia in Iran ci sono donne sempre più determinate, dice. «E quando la richiesta è più precisa, la risposta deve essere adeguata»