ll 90% degli arrestati durante le recenti proteste in Iran ha meno di 25 anni. Sognano la mobilità sociale e salari alti. Più dei fratelli maggiori, sfidano i divieti della Repubblica islamica. Non hanno chiari riferimenti ideologici, ma chiedono cambiamenti. E non hanno nulla da perdere
Non hanno vissuto la rivoluzione del 1979 e neanche la guerra con l’Iraq che è durata dal 1980 al 1988. Non hanno esperienza diretta della ricostruzione economica, del cresci e consuma degli anni Novanta e delle proteste contro la liberalizzazione selvaggia. Erano bambini durante l’era riformista del presidente Mohammad Khatami e del boom della classe media.
Ancora troppo giovani nel 2009 per recriminare il loro voto nelle strade di Teheran durante le proteste dell’Onda Verde e non è detto che ci sarebbero stati. Hanno tra i 20 e i 25 anni, sono i figli di quella stessa Repubblica islamica dell’Iran che hanno contestato per le strade di piccoli e grandi centri urbani e rurali, dal 28 dicembre al 4 gennaio scorsi.
Il «90% degli arrestati ha meno di 25 anni», dichiara il 2 gennaio il viceministro dell’Interno iraniano Hossein Zolfaghari. Quattro giorni dopo, il numero di persone che finisce in manette sale a 1000 e almeno «90 sono studenti», fa sapere il parlamentare riformista Mahmoud Saleghi. Tra loro, c’è chi è disoccupato, con una laurea e un master che vorrebbe fare fruttare, o chi studia ancora. C’è chi si arrangia con occupazioni saltuarie o chi di lavori ne ha due, ma fa fatica ad arrivare a fine mese: uno da venditore ambulante nella metro e un altro come tassista di Snapp, una app di trasporto simile a Uber.
Condividono la stessa frustrazione contro lo status quo e una classe politica dalla quale – dicono – non si sentono rappresentati. Partecipano alla polifonia di voci che scandisce slogan contro la corruzione e la miseria, e rivendica posti di lavoro. La cornice ideologica sembra assente, a volte le istanze appaiono contrastanti e si perdono, a tratti, in rivendicazione dal sapore nazionalista, a tratti nostalgico nei confronti di un’era dello Scià troppo mitizzata.
La spinta arriva dal basso, come medio-basso è il ceto a cui appartengono, mentre in tanti coetanei delle classi più alte sono rimasti a guardare – in parte simpatizzando, in larga parte ostili rispetto ai metodi e ai tempi di mobilitazione. Sognano la mobilità sociale e salari migliori (quando arrivano in tempo – commentano), ma un mix di politiche di austerity, svalutazione del rial (la moneta locale), inflazione e mancata risposta alla disoccupazione giovanile li ha intrappolati in un limbo di alienazione e frustrazione.
Cosa è cambiato: perché questa generazione può fare la differenza
Nonostante inizialmente a fomentare la rabbia popolare siano state le frange conservatrici, in aperta opposizione al governo guidato dal moderato Hassan Rouhani, parte della generazione dei nati negli anni Novanta ha risposto spontaneamente alle chiamate di piazza. Sebbene Telegram, il sistema di messaggistica istantanea molto usato in Iran, non sia stato detonatore delle mobilitazioni reali, ha fatto – con un canale chiamato Voce del Popolo – da megafono agli appelli ed ha rappresentato strumento utile di discussione e di scambio di informazioni logistiche.
Per questo motivo è stato bloccato nei giorni delle proteste. Ma ad essere interessante non è l’utilizzo in sé della Rete come mezzo di comunicazione, che di certo non era così capillare ai tempi delle rivolte precedenti, ma la determinazione e l’audacia con la quale questa generazione vuole costruire un’alternativa. Più delle generazioni precedenti, essa sfida i divieti che la Repubblica islamica impone nello spazio pubblico: i figli degli anni Novanta nascondono di meno gli abbracci in pubblico tra uomini e donne, la musica a tutto volume, l’uso di alcol e parlano liberamente nei parchi, negli autobus e nei caffè vicini alle università di questioni considerate sensibili.
Dicono di non aver paura di essere controllati quando scrivono delle loro idee su Telegram o su altre piattaforme social. Nei giorni delle proteste – ad esempio – mentre internet funzionava a singhiozzi, la rete telefonica spariva di continuo e Telegram veniva bloccato dalle autorità, in tanti scaricavano Whatsapp pur di condividere le foto con gli occhi arrossati dai lacrimogeni e i video degli scontri. Alcuni si scambiavano online le informazioni sulle sorti degli amici arrestati.
Se è vero che di rivolte la Repubblica islamica ne ha viste tante e a più ondate, la settimana tra dicembre 2017 e gennaio 2018 ha esposto ai riflettori nuove soggettività in campo, quella di una generazione alienata rispetto al sistema dominante di cui è figlia e priva di rappresentazione. Al di là della distribuzione geografica, ciò che si è (tras)formato rispetto sia alle proteste operaie e dei cosiddetti urban poor dei primi anni Novanta e di metà degli anni Duemila – ma anche rispetto ai giovani della classe media che rivendicavano diritti civili nel 2009 e alle rivolte degli insegnanti o degli infermieri negli anni successivi, è un nuovo rapporto con la manifestazione del dissenso in strada.
A differenza delle mobilitazioni precedenti, c’è chi tra i giovani è sceso in piazza da solo o in piccolissimi gruppi, rispondendo semplicemente a un appello su un canale online e senza contatti con gruppi di attivisti già consolidati o aizzato da gruppi politici conservatori. Così, in tanti hanno deciso di raggiungere i sit-in di una protesta acefala, ovvero priva di una leadership e di riferimenti ideologici chiari. Ad unire parte di questa giovane generazione agli altri iraniani presenti alle mobilitazioni è stato un minimo comune denominatore: l’essere precari, impoveriti e consapevoli di avere scarse aspettative rispetto al futuro.
«Cosa ho da perdere? Ho studiato, ma tanto non serve a niente. Non ho comunque un lavoro. Non posso uscire dal Paese perché devo ancora fare il militare. Ho pochi soldi», ripeteva un ragazzo di 25 anniin quei giorni a Teheran.
Le istanze portate nelle strade e sulle quali per la prima volta c’è stato un dibattito pubblico molto articolato, anche sui giornali, sono state principalmente la lotta alla corruzione e la crisi economica. Entrambi i problemi non sono nuovi per la Repubblica islamica, ma nuove sono le modalità di espressione, organizzazione e comunicazione.
Ciò che è maturato rispetto al passato, grazie alla generazione iper-connessa e allo stesso tempo scollata dal sistema al cui appartiene, è l’approccio alle questioni politiche: molti giovani presenti a queste proteste non fanno parte di gruppi di attivisti già rodati né si sentono rappresentati da ideologie politiche. “La politica non mi interessa”, è un refrain costante. Diventati adulti negli ultimi anni, quelli della presidenza del moderato Hassan Rouhani e di un allentamento della repressione, dicono di non essere disposti a sopportare un sistema di cui non comprendono a pieno né accettano i codici di comportamento e le restrizioni.
Ma non fanno parte né della classe media e neanche dei poveri tradizionali, come ha fatto notare lo studioso Asef Bayat, piuttosto di un ceto medio impoverito che è il risultato delle politiche portate avanti soprattutto nei primi due decenni dell’era post-rivoluzionaria: l’accesso all’istruzione gratuita da un lato e la liberalizzazione economica selvaggia dall’altro. Se in Iran, a partire dagli anni Zero, una famiglia su cinque ha prodotto un laureato, l’economia non è però riuscita a rispondere alle nuove richieste di lavoro e oggi il 35% dei giovani con un livello di istruzione alto non ha un lavoro.
Anche questa è la generazione ’90 dell’Iran e rappresenta i nuovi poveri, trait-d-union con le rivendicazioni del passato e probabilmente con le trasformazioni future, se la politica saprà coglierne il potenziale.
@transit_star
ll 90% degli arrestati durante le recenti proteste in Iran ha meno di 25 anni. Sognano la mobilità sociale e salari alti. Più dei fratelli maggiori, sfidano i divieti della Repubblica islamica. Non hanno chiari riferimenti ideologici, ma chiedono cambiamenti. E non hanno nulla da perdere