Un dirigente italiano del gruppo Digikala, il primo portale di e-commerce dell’Iran, spiega come una delle imprese più avanzate della Repubblica islamica si prepara a un’economia di guerra: “Dobbiamo diventare il grande bazar del Paese, puntando ai beni di prima necessità”. Ma sarà dura
Trump aumenta la pressione sull’Iran per strangolare la sua economia, puntando ad annullarne l’export di petrolio e inducendo le imprese straniere a lasciare il Paese, mentre prospetta al suo entourage un ormai prossimo ‘regime change’ guidato dal Consiglio nazionale per la resistenza iraniana appena riunito in una convention a Parigi. Ecco come si prepara al peggio una delle imprese più avanzate, la Amazon iraniana.
È il primo portale di e-commerce in Iran, la grande Amazon iraniana: ad alto contenuto di tecnologia digitale avanzata, circa 2500 dipendenti con età media di 29 anni, fondata da due giovani iraniani ma con decine di stranieri nei quadri dirigenziali. Eppure non è immune dalla politica e dalle sanzioni di Trump contro l’Iran, dal crollo del valore del rial contro l’euro e il dollaro degli ultimi mesi, dalle sempre più lunghe liste di prodotti di cui il governo ha vietato l’importazione da maggio in poi.
Semmai, proprio per essere così tecnologicamente avanzata e disporre di un enorme magazzino da 8 milioni di articoli, è più in grado di rispondere con flessibilità alla crisi, diversificando gli approvvigionamenti e decidendo di puntare, ora, sui beni di consumo essenziali e made in Iran. Di fatto, dunque, preparandosi ad una possibile economia di guerra, mentre l’offensiva di Trump punta a stringere sempre più in una morsa l’economia del Paese.
Parliamo del gruppo Digikala, nato una dozzina di anni fa come piccolo portale di vendita online di prodotti elettronici – dai laptop ai telefonini – per arrivare oggi ad un catalogo di 800 mila articoli della più vasta gamma di categorie, dagli alimentari alle lavatrici, per consumatori privati e commercianti. A parlarne con eastwest.eu è un giovane dirigente italiano del gruppo, che preferisce non rendere nota la sua identità, e che per comodità chiameremo Marco.
«Di fatto sì – concorda – stiamo ragionando come se ci preparassimo a misure straordinarie, e grazie alla nostra flessibilità e ad un grande magazzino abbiamo la fortuna di poterlo fare, puntando a rifornirci di ciò che è essenziale e non accessorio. Sarebbe ingenuo non farlo, vista la situazione». Una situazione in cui gli effetti della politica americana verso l’Iran stanno diventando tangibili. «C’è poco da fare – osserva Marco – bisogna essere realisti. Gli scenari potrebbero essere estremamente negativi in futuro, ma se la valuta troverà un equilibrio, se cioè vi sarà la certezza che, per quanto alto, il valore del rial rimarrà stabile, potremo avere anche un’opportunità: con i nostri prezzi, comprensivi di tasse e dazi che in Iran molti tendono ad evadere, diamo trasparenza al mercato iraniano, e se altri dovranno chiudere, noi avremo la capacità di restare. Ma è necessario focalizzarci già ora su certi beni di primo consumo, come stiamo facendo con gli alimentari. Abbiamo cominciato una campagna per i prodotti made in Iran, alternativi a quelli stranieri che potrebbero avere problemi in futuro. In questo modo, e con un vasto assortimento, i prezzi possono rimanere medio-bassi. È un po’ come diventare il grande bazar del Paese, dobbiamo prepararci al peggio».
Nei giorni scorsi, mentre il dollaro veniva venduto a oltre 90.000 rial sul mercato libero ormai illegale – contro i circa 42 mila di fine 2017 e del tasso ufficiale attuale, con cui la Banca centrale iraniana fornisce quantità di valuta contingentata a seconda dell’impiego cui è destinata, sia esso nel turismo o nel commercio – il governo ha diffuso una lista di beni di cui è vietata la vendita: 1300-1400 prodotti – dalle auto all’abbigliamento ma non all’elettronica -, per arginare l’uscita di valuta straniera dalle casse dello Stato. In questa lista vi sono certo anche molti beni italiani, considerato che i dati Istat sull’interscambio Italia-Iran del primo trimestre 2018 sono sostanzialmente in linea con quelli più che buoni del 2017, e che la nostra industria esporta di tutto – ma soprattutto macchinari, prodotti chimici, medicinali e forniture mediche.
Ma per l’Amazon iraniana la quota di beni italiani è poco rilevante, non più del 25% nei capi e accessori di abbigliamento, per i quali ha un portale dedicato, Digistyle, che offre 150 marchi locali e stranieri e vende alcune migliaia di prodotti al giorno.
E sono stati finora tutti in crescita i numeri del gruppo fondato da Saeid e Hamid Mohammadi – e che ha anche investitori iraniani e internazionali – in parallelo con la crescita esponenziale della penetrazione di internet nel Paese (al 70% nel 2016). Nonostante la quota del mercato web sia ancora solo dello 0,8% – secondo i dati della stessa Digikala – contro il 2,5% della Turchia, il 4% della Germania e il 13,5% della Gran Bretagna. Conquistato però il 90% del mercato su internet in Iran, il gruppo conta oltre due milioni di clienti attivi, 6 milioni di iscritti e più di 600 fornitori, ha visto le transazioni raddoppiare in un anno, e dispone a Teheran del più grande magazzino dell’area Mena (Medio Oriente e Nordafrica).
Un’azienda interamente privata, giovane e in piena crescita, dunque, e certamente un fiore all’occhiello anche per il governo di Hassan Rouhani che aveva scommesso sulla modernizzazione dell’economia, ma che ora si trova a dover frenare almeno sugli investimenti.
«Noi solitamente dobbiamo aggiungere personale – dice ancora Marco, precisando che si tratta di contratti in linea con le norme iraniane per i lavoratori stabilizzati – ma ora cerchiamo di limitare questa crescita, senza licenziare nessuno. Ci sarebbe piaciuto investire comprando dei nuovi macchinari in Italia, ma abbiamo dovuto posticipare il progetto». Anche se i primi tre mesi dell’anno iraniano (che comincia il 21 marzo) hanno fatto registrare «un aumento del 25% del nostro budget, molto di più di quanto ci aspettavamo».
Ma ormai, per effetto dell’instabilità valutaria, vi sono giorni in cui i centri commerciali e i negozi chiudono, anche i commercianti dei bazar scendono in strada a protestare e si è passati, per i pagamenti, dalle scadenze a tre mesi «ai contanti a vista – dice Marco – anche con grandi fornitori».
E anche se il peggio non è ancora arrivato, fa intuire Marco, Trump ha ottenuto il suo scopo. Ma le proteste di cui danno conto le cronache all’estero sono ancora fenomeni circoscritti e in più occasioni alimentati dagli ultraconservatori. Come ritengono molti analisti, in Iran sono proprio gli estremisti ad andare d’accordo con Trump, la cui offensiva del resto rafforza lo spirito di unità nazionale indebolendo le voci più moderate. Mentre la maggioranza degli iraniani vuole la stabilità, e il voto a Rouhani andava proprio in quella direzione. «Altro che gli slogan ‘morte all’America’ ripresi spesso dai media – conclude Marco – qui la gente ha sogni e ambizioni di avere una vita normale, moderna e connessa al resto del mondo».
@lb7080



Un dirigente italiano del gruppo Digikala, il primo portale di e-commerce dell’Iran, spiega come una delle imprese più avanzate della Repubblica islamica si prepara a un’economia di guerra: “Dobbiamo diventare il grande bazar del Paese, puntando ai beni di prima necessità”. Ma sarà dura