Il ministro degli Esteri iraniano Zarif è nel mirino degli ultraconservatori che ne chiedono l’impeachment. lntanto gli Usa accusano l’Iran di aver violato con un test missilistico una risoluzione dell’Onu. Teheran nega, ma questa volta Washington trova una sponda a Parigi e Londra
Un fronte esterno e uno interno. Continua a muoversi funambolicamente lungo due trincee il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif. Da una parte quella contro gli ultraconservatori in patria che prima non volevano l’accordo sul nucleare del 2015 e ora hanno tentato, per ora senza esito, un’azione di impeachment nei suoi confronti in Parlamento. Dall’altra la nuova offensiva dell’amministrazione Trump che, uscita unilateralmente in maggio da quell’accordo e sparati gli ultimi colpi del caricatore delle sanzioni il 6 novembre, ora alza il tiro sui nuovi test dei missili balistici compiuti dalle forze armate della Repubblica Islamica nei giorni scorsi.
“Il regime iraniano ha appena testato il lancio di un missile balistico di media gittata in grado di portare testate multiple. Questo viola la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza dell’Onu”, twittava Pompeo il primo dicembre, citando la risoluzione che adotta l’accordo multilaterale del 2015 sul nucleare iraniano e condannano il test.
Immediata la risposta iraniana: non è Teheran che viola la risoluzione 2231 ma lo hanno già fatto gli Usa e proprio uscendo dall’accordo sul nucleare. Un modus operandi “surreale”, lo ha definito Zarif su Twitter, da parte di chi non solo viola la risoluzione, ma “arriva a minacciare di punire quanti non vogliono violarla adeguandosi alle illegali sanzioni Usa”.
E ancora, ha precisato il ministro iraniano rispondendo al consigliere della Casa Bianca Brian Hook, “gli stessi Usa ammettono” che quella risoluzione “non proibisce all’Iran di sviluppare capacità di deterrenza” ma letteralmente gli chiede “di non intraprendere alcuna attività relativa a missili balistici progettati in modo da poter portare testate nucleari”.
La risoluzione dunque non vieta all’Iran di testare missili balistici, ribadirà poi in un’intervista ripresa dal Teheran Times, aggiungendo che quelli testati non sono progettati per le testate nucleari. Ma quel test è intanto arrivato anche al Consiglio di sicurezza dell’Onu, in una riunione a porte chiuse svoltasi il 4 dicembre su richiesta di Francia e Gran Bretagna. Riunione conclusa con un nulla di fatto, ma in cui anche i due firmatari europei dell’accordo hanno ribadito le loro preoccupazioni per i possibili effetti destabilizzanti di tale condotta sugli equilibri regionali.
Non si tratta naturalmente di lana caprina ma di una delle tre principali sfide che l’amministrazione Trump ha lanciato fin dal suo insediamento a Teheran: oltre alla sorte dell’accordo sul nucleare e alle aspirazioni egemoniche nella regione di cui gli Usa e i loro alleati sauditi e israeliani accusano l’Iran, c’è infatti anche quella del suo programma missilistico, che Teheran ha sempre sostenuto rientri in una azione preventiva e difensiva, come ha ribadito lo stesso Zarif a Roma, ospite dei Med Dialogues svoltisi dal 22 al 24 novembre.
«La gente non vuole ricordare che abbiamo subito otto anni di guerra», ha sottolineato in merito all’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein e del lungo conflitto che ne è seguito. Conflitto in cui le potenze regionali alleate del rais iracheno hanno speso miliardi di dollari in armi in suo sostegno, per poi appoggiare «Al Qaida e i talebani» e fare «scelte sbagliate in Iraq, in Siria e in Yemen». Eppure, ha aggiunto il ministro, è l’Iran che si vuole sempre fare apparire responsabile di tutto.
La politica di difesa della Repubblica islamica ha sempre puntato in alto sul piano tecnologico, a dispetto di decenni di sanzioni, ed è stata periodicamente accompagnata da escalation propagandistiche muscolari. Così è accaduto anche in questi in questi ultimi giorni, con alti esponenti delle forze armate pronti a dichiarare che Teheran può estendere il raggio d’azione dei propri missili oltre i 2.000 km, entro i quali si trovano le basi Usa in Afghanistan, Emirati e Qatar, e le portaerei statunitensi nel Golfo. Un rialzo dei toni in cui si è inserito il nuovo avvertimento del presidente Hassan Rouhani sul fatto che, se davvero gli Usa impedissero all’Iran di esportare petrolio, nessun’altra petroliera potrebbe passare per lo stretto di Hormuz.
Parole certo destinate a tacitare l’opposizione interna più militarista e conservatrice, considerato che il governo è tuttora impegnato nel definire accordi per il suo export petrolifero con i suoi partner asiatici e sta dando ancora tempo all’Europa per il tormentato parto dello Special Purpose Vehicle: l’espediente che dovrebbe garantire un canale finanziario per la prosecuzione degli scambi con Teheran. Scambi che devono però includere anche il petrolio, ha puntualizzato ancora sul Teheran Times Zarif, rispondendo a indiscrezioni in senso contrario della Reuters. Mentre si affaccia l’ipotesi che l’Spv possa nascere, intorno a gennaio, con lo scopo primario di garantire la fornitura beni alimentari e umanitari all’Iran, evitando così contromisure statunitensi.
Troppo poco per garantire a Teheran i guadagni economici attesi dal nuclear deal e tacitare gli ultraconservatori che quell’accordo non l’avevano mai voluto? È in questo clima che si è aperto il nuovo fronte interno per quel ministro dal sorriso sornione cui Rouhani ha affidato l’ immagine di Teheran all’estero. E se la sua recente trasferta a Roma ha fatto storia sui social media per la frase «noi sopravvivremo» – riferita alle sanzioni ma trasformata in patria in un refrain applicato con ironia anche alle battaglie degli operai per i salari arretrati o quella delle donne contro l’obbligo del velo – altre sue parole hanno fatto infuriare i suoi nemici dentro e fuori il Parlamento, al punto da spingere 24 parlamentari ad aprire una procedura per il suo impeachment.
In particolare, l’aver dichiarato a media locali che «il riciclaggio del denaro è una realtà» in Iran e che persone con «interessi acquisiti stanno bloccando l’adesione del Paese alle norme internazionali contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo». In questione l’adesione, finalmente varata il mese scorso dal Parlamento, alla normativa internazionale contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, come richiesto dalla Finantial Action Task Force (Faft). Una vittoria per il governo, che però si è subito visto respingere le nuove norme dal Consiglio dei Guardiani, dominato dagli ultraconservatori, con un rinvio al Majlis e la richiesta di modifiche. Ma, proprio il 5 dicembre, l’assemblea ha riapprovato le norme, con la speranza che il Paese sia rimosso dalla lista nera della Faft prima della scadenza ultima di febbraio. I sostenitori della legge ritengono che essa potrà favorire gli investimenti stranieri, mentre i conservatori che vi si oppongono temono che essa possa impedire il sostegno finanziario agli Hezbollah libanesi, ritenuti dagli Usa un gruppo terrorista.
Il rispetto di queste norme internazionali è una precondizione indispensabile, ha dichiarato di recente all’Irna il viceministro degli Esteri iraniano Abbas Araqchi, per permettere alle banche iraniane colpite dalle sanzioni Usa di cooperare non solo con lo Special Purpose Vehicle europeo ma anche con la Cina e la Russia.
Quanto alla richiesta di impeachment di Zarif, perfino alcuni elementi e giornali del campo conservatore vi si sono pubblicamente opposti e, dopo un’audizione del ministro alla Commissione per la politica estera e la sicurezza nazionale, sei parlamentari hanno ritirato la firma dalla mozione. Il Majlis sta dunque prendendo tempo. Segno che, almeno per ora, la poltrona di Zarif non è in discussione.
Il ministro degli Esteri iraniano Zarif è nel mirino degli ultraconservatori che ne chiedono l’impeachment. lntanto gli Usa accusano l’Iran di aver violato con un test missilistico una risoluzione dell’Onu. Teheran nega, ma questa volta Washington trova una sponda a Parigi e Londra