L’esercito di Baghdad sostenuto da miliziani sciiti riconquista la città e i suoi immensi campi di petrolio, finiti nell’orbita curda dopo la liberazione dall’Isis. I peshmerga si ritirano anche da Sinjar, strappata ai jihadisti nel 2015. E il sogno dell’indipendenza vacilla
Kirkuk è scomparsa dalle mappe di un Kurdistan immaginario, come il sole della bandiera che non sventola più sulla città. L’hanno riconquistata, senza difficoltà, l’esercito iracheno insieme alla milizia sciita al-Shaab. Un’operazione chirurgica messa in atto da Baghdad per punire il governo curdo, colpevole di essersi spinto oltre la linea rossa dell’autonomia. L’Iraq è – e resterà – un Paese unico, indivisibile, pensano gli iracheni.
Kirkuk è il cuore pulsante dell’industria petrolifera dell’Iraq, con riserve di quasi dodici miliardi di barili. La vera sfortuna di Kirkuk però non è il governo centrale che ne reclama la paternità, bensì essersi trovata al centro di un’annosa disputa sul petrolio tra la regione autonoma curda e Baghdad. Nonostante i ricavi sulla vendita del greggio dell’oleodotto Kirkuk-Cehyan avrebbero dovuto essere divisi a livello nazionale, le controversie con Baghdad hanno fatto sì che Erbil abbia di gran lunga preferito l’esportazione via terra con la Turchia, controllando così l’intero processo produttivo e intascando tutto il guadagno.
Le rivendicazioni sulla città non sono solo di natura patriottica. L’intera provincia è da sempre una pedina importante per l’economia del Paese, un merito infame che gli ha fatto subire un processo di arabizzazione per mantenere le risorse petrolifere sotto il controllo del regime arabo-nazionalista Baath. Attraverso l’espulsione della popolazione curda, portata a forza nelle zone meridionali dell’Iraq e sostituita da cittadini iracheni ed egiziani di etnia araba, negli anni ’70- ’80 il Baath è andato a modificare drammaticamente gli equilibri etnico- demografici della regione, riducendo la presenza curda di oltre la metà rispetto agli anni ’50 (750 mila contro 375 mila). Ma questo processo non avrebbe potuto essere così rapido se Saddam Hussein non avesse lanciato la campagna di genocidio contro il popolo curdo e le popolazioni non arabe nel Nord dell’Iraq soprannominata Al-Anfal e condotta tra il 1986 e il 1989.
Masoud Barzani, presidente della Regione autonoma del Kurdistan iracheno, ha chiamato alle urne quattro milioni di persone per votare un referendum consultivo sull’indipendenza dall’Iraq. La votazione è stata estesa anche ai “territori contesi” tra cui Kirkuk, finita nell’orbita curda nel 2014 dopo essere stata liberata dalla presenza dell’Isis. Dopo il referendum curdo dello scorso 25 settembre, Baghdad ha intensificato le richieste per il ritorno di Kirkuk e dei campi petroliferi sotto il suo controllo.
La regione curda ha iniziato a godere di un certo margine di autonomia già dal 1992, ma il sogno è sempre stato l’indipendenza. L’esito referendario non è stato dunque una sorpresa, con il 92% della popolazione che ha votato per il Sì. Baghdad ha insistito e un passo indietro da parte di Erbil sarebbe stato necessario per evitare di scivolare verso un rapido deterioramento dei rapporti nazionali. A niente è valso il mancato appoggio al referendum dell’Unione Europea e degli Stati Uniti. In un attimo Barzani e tutta la regione curda si sono ritrovati soli, stretti in una morsa destinata a stringersi giorno dopo giorno.
Dopo la chiusura dello spazio aereo, il primo ministro iracheno Al-Abadi ha trovato in Tehran e Ankara due validi alleati. L’Iran in particolare, con le milizie sciite Hashd al-Shaabi, ha affiancato l’esercito iracheno nell’operazione militare volta a riprendere il controllo della città di Kirkuk, che ha visto i combattenti peshmerga abbandonare le postazioni. Potrebbe sembrare uno strano scherzo del destino se si pensa che durante l’avanzata dello Stato islamico, nel 2014, è stato proprio l’esercito iracheno a scappare e a lasciare un vuoto militare dentro cui si sono inseriti i curdi. Così adesso l’Iraq si è riguadagnato il pieno controllo di tutti i campi petroliferi di Kirkuk.
Ma non c’è il tempo per fare recriminazioni né pensare all’immediato futuro. Le conquiste realizzate in questi ultimi anni stanno vacillando e tutto lascia supporre che la regione curda sarà costretta a rientrare entro i confini antecedenti al 2014. Dopo Kirkuk infatti le milizie al-Shaabi si sono dirette a Makhmour e Sinjar, quest’ultima liberata dall’Isis da una coalizione di forze peshmerga e combattenti del Pkk a novembre 2015. Il comandante della milizia yazida locale, Masloum Shingali ha dichiarato all’Associated Press che le forze curde hanno lasciato la città all’alba di martedì, permettendo ai miliziani sciiti di entrare in città. Non ci sono stati scontri “se ne sono andati immediatamente, non hanno voluto combattere”. L’unità dei peshmerga “Comando Shingal” di stanza a Sinjar ha dichiarato di aver raggiunto un accordo con i combattenti al-Shaabi per impedire ogni spargimento di sangue.
È durata appena qualche mese la bandiera curda a Kirkuk. Issata accanto a quella rossa, bianca e nera dell’Iraq, non ha retto il peso di un sogno troppo grande, destinato a infrangersi ancora una volta e a restare chimera.
@linda_dorigo
Fotografa, giornalista e documentarista, Linda Dorigo dal 2014 lavora ad un progetto editoriale sull’identità del popolo curdo in Iraq, Iran, Siria e Turchia. Questo è il quarto di una serie di articoli per eastwest.eu dedicati alle questione curda dopo il referendum per l’indipendenza.
L’esercito di Baghdad sostenuto da miliziani sciiti riconquista la città e i suoi immensi campi di petrolio, finiti nell’orbita curda dopo la liberazione dall’Isis. I peshmerga si ritirano anche da Sinjar, strappata ai jihadisti nel 2015. E il sogno dell’indipendenza vacilla