Lo scorso 9 settembre, una violenta protesta è esplosa all’apertura dell’International Film festival di Dohuk, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. In cartellone, quella sera, c’era la première di “Reseba” (“Il vento oscuro”), pellicola del regista curdo Hussein Hassan che, attraverso le vicende di una giovane coppia yazida, ricostruisce il genocidio perpetrato dallo Stato islamico nella vicina valle del Sinjar: lei verrà rapita e venduta come schiava, lui si arruolerà in una brigata Peshmerga per ritrovarla e portarla a casa.
Presentato come “il primo film sul popolo degli Yazidi”, il lungometraggio non ha però incontrato il favore della numerosa comunità yazida che proprio a Dohuk, dopo il massacro dell’agosto 2014, ha trovato rifugio. Man mano che le immagini scorrevano sullo schermo, la sera della première, dalle poltrone degli yazidi presenti in sala hanno iniziato a levarsi grida sempre più forti e indignate: a proiezione ultimata, nel centro congressi che ospitava l’evento si è sfiorata la rivolta, mentre tre dei contestatori venivano portati via in manette. “È tutta una menzogna – hanno strillato all’indirizzo del regista – non è così che sono andate le cose. Noi non uccidiamo le nostre figlie!”.
Ad accendere gli animi, in effetti, è stata soprattutto la sequenza che ritrae il ritorno a casa della ragazza: la sua comunità la considera ormai “impura”, mostrando enormi difficoltà ad accettarla; al punto che il padre del suo fidanzato, in un apparente raptus omicida, le punterà perfino una pistola alla nuca. “Si tratta di un’enorme distorsione” ci ha spiegato un paio di giorni dopo Jafar Som, portavoce del tempio di Lalish, il più importante tra i luoghi di culto per gli Yazidi. “Quando le prime ragazze hanno iniziato a fuggire dagli aguzzini del Daesh, i nostri leader religiosi hanno pubblicamente chiesto che venissero accolte col massimo dell’affetto e della comprensione, perché ciò che avevano subito lo avevano subito contro la loro volontà”. Oltre a seguire una dottrina esoterica, in cui riti e precetti vengono tramandati esclusivamente tra i fedeli, gli Yazidi formano infatti una comunità strettamente endogamica: vale a dire che il sesso e il matrimonio interreligioso sono severamente proibiti. In un passato non troppo lontano, la trasgressione a questo divieto ha dato origine a delitti d’onore; ma l’atteggiamento degli yazidi è radicalmente mutato quando lo Stato islamico ha rapito e venduto come schiave migliaia di queste donne, ripetutamente stuprate dai barbuti di al-Baghdadi, che le considerano adoratrici del diavolo. “Ad oggi – sottolinea Som – quasi tremila ragazze restano nelle loro mani, spesso con i figli al seguito. E un film del genere potrebbe avere effetti molto pericolosi sulla loro psiche, se finisse per circolare nei territori dello Stato islamico”. Per la stessa ragione, Vian Dakhil – unica deputata yazida eletta nel parlamento federale iracheno, nota per essere sopravvissuta allo schianto di un elicottero durante il massacro del Sinjar – ha invocato in aula la rimozione della pellicola dalla programmazione dei festival internazionali. Il giorno dopo, in effetti, una seconda proiezione in programma alla kermesse di Dohuk è stata cancellata.

Nonostante possa apparire come un’ordinaria schermaglia mediorientale a base etnico-settaria, l’episodio riflette piuttosto bene il contesto sociale che l’avanzata del Daesh rischia di lasciarsi alle spalle. Oggi, la comunità yazida irachena sembra pericolosamente vicina a un punto di rottura. Due anni dopo il massacro del monte Sinjar, la maggior parte degli sfollati che in quei giorni si riversarono a Dohuk, Arbil e Sulaymaniyah continua a vivere alla deriva tra campi profughi ed edifici abbandonati. “C’erano 550mila yazidi in Iraq nell’agosto del 2014” illustra Jameel Chomer, coordinatore di Yazda, organizzazione non governativa nata per assistere i sopravvissuti al genocidio. “Di questi, ben 400mila sono diventati sfollati. Chi era in grado di pagare il viaggio è emigrato in Europa; ma per gli altri le cose sono andate peggiorando”. Secondo Chomer, la maggior parte dei sopravvissuti è ormai nullatenente, quando non gravemente indebitata. Anche quanti sono riusciti a mettere in salvo risparmi e oggetti di valore, infatti, hanno spesso finito per rivenderli per poter pagare la liberazione di donne e bambini. In questo modo – stando a quanto dichiarato dal segretario generale ONU, Ban Ki Moon – soltanto tra l’agosto e il dicembre del 2014 gli yazidi avrebbero versato più di 45 milioni di dollari nelle casse del Daesh.
“Esistono essenzialmente due strade per liberare una ragazza” spiega Chomer. “La prima consiste nel pagare il riscatto ai jihadisti, ma in realtà non accade molto di frequente. La seconda è organizzare un’operazione clandestina”. A condurre queste operazioni è una rete di mediatori sparsi tra Dohuk e la valle del Sinjar: alcuni – come “Abu Shujaa” (“Padre coraggio”) o Khaleel al-Dakhi — sono divenuti figure leggendarie tra gli yazidi. I loro referenti sono contrabbandieri arabi che vivono nei territori dello Stato islamico, perlopiù a Tal Afar, Mosul, Raqqa e Deir ez Zor. “Di solito, tutto parte da una telefonata” spiega al-Dakhi, un avvocato di Dohuk che negli ultimi due anni ha organizzato la liberazione di oltre 150 ragazze. “Magari una donna riesce a convincere il suo aguzzino a lasciarle chiamare casa. A quel punto, se lei comunica il suo indirizzo ai familiari, io posso iniziare a far sorvegliare l’abitazione dai miei contatti, che alla prima occasione la liberano e la portano al più vicino checkpoint dei Peshmerga. Il tutto può avvenire anche nell’arco di poche ore; ma in genere c’è bisogno di settimane di appostamenti”.
Simili operazioni non sono a buon mercato: in media, una liberazione arriva a costare tra i 10 e i 20mila dollari americani. La maggior parte del denaro finisce nelle tasche dei contrabbandieri, che del resto corrono rischi enormi: il solo al-Dakhi riferisce di averne visti morire sette negli ultimi due anni, tutti scoperti e giustiziati dai miliziani dello Stato islamico. Secondo quanto dichiarato da Khairi Bozani al portale web al-Monitor, negli ultimi mesi le loro tariffe sarebbero vertiginosamente aumentate. Bozani dirige l’ufficio Affari yazidi del Governo regionale curdo, che nell’autunno 2014 ha istituito un fondo per sovvenzionare la liberazione delle ragazze: stando ai dati diffusi dall’ente, i due milioni di dollari finora stanziati avrebbero consentito di riportarne a casa quasi tremila. Quando il denaro non era immediatamente disponibile, la procedura prevedeva che fossero le famiglie ad anticiparlo, presentando in seguito una richiesta di rimborso. “Nel frattempo, però – puntualizza Chomer – con il crollo del prezzo del petrolio, il Kurdistan iracheno è stato investito da un’enorme crisi economica, che ha totalmente paralizzato l’iniziativa. E da oltre un anno, ormai, il fondo non viene rifinanziato”. In questo modo, decine di famiglie che attendevano un rimborso si sono ritrovate indebitate per decine di migliaia di dollari: sommandosi a un’ulteriore stretta repressiva nei territori dello Stato islamico, la mancanza di liquidi ha finito per bloccare totalmente le liberazioni. “Soltanto nell’aprile del 2015 – ricorda al-Dakhi – riuscimmo a riportare a casa 49 ragazze. Quelle che abbiamo liberato nell’ultimo anno, al contrario, si contano sulle dita di una mano. Com’era prevedibile, i carcerieri si sono fatti molto più vigili; perché chi si fa sfuggire una prigioniera perde credibilità, diventa uno zimbello agli occhi degli altri miliziani e può venire duramente punito per questo”.

Indebitati e senza alcuna possibilità di liberare i propri cari, gli yazidi sono dunque costretti al ruolo di impotenti spettatori, mentre dalle Nazioni unite arrivano report che parlano di civili utilizzati come scudi umani dai jihadisti, man mano che Peshmerga e forze irachene avanzano su Mosul. Come non bastasse, lo scorso 10 ottobre un rapporto di Amnesty international ha denunciato le “gravi negligenze” mostrate dalla comunità internazionale nei confronti delle sopravvissute allo Stato islamico: profondamente traumatizzate dopo aver subito violenze di ogni genere, secondo Amnesty queste ragazze non starebbero ricevendo le cure specialistiche di cui necessitano. “Finora – illustra Chomer – la nostra organizzazione ha assistito più di mille donne. Grazie ai nostri partner statunitensi siamo riusciti a reperire risorse per offrir loro assistenza medica e psicologica. A circa 700 sopravvissute abbiamo inoltre fornito la social card, che consente di acquistare beni di prima necessità; e in seguito alle nostre pressioni, il governo federale ha riconosciuto a tutte un sussidio di cento dollari al mese. Ma mille donne, su settemila sequestrate, restano comunque una goccia in mezzo al mare”.
Il rapporto di Amnesty sottolinea inoltre come le autorità irachene stiano facendo poco o nulla per individuare colpevoli e complici dei crimini contro gli yazidi: “per quei delitti – recita il documento – nessuno è stato ancora processato o condannato”. Ma da tempo, in realtà, sotto la cenere dell’inerzia giuridica covano rappresaglie e faide settarie. Queste tensioni sono già esplose con violenza nel gennaio del 2015, quando un convoglio paramilitare ha circondato, uno dopo l’altro, i villaggi arabi di Jiri e Sibaya, nella valle del Sinjar. Nel giro di qualche ora, ogni casa all’interno del perimetro era stata saccheggiata e data alle fiamme; e quando la colonna si è ritirata, 21 persone erano state uccise a sangue freddo: tra loro, anche anziani, disabili e almeno due bambini sotto i dieci anni. A condurre un’indagine sull’accaduto, anche allora, fu Amnesty international: secondo l’organizzazione, il massacro di Jiri e Sibaya rappresenterebbe il primo atto in una serie di rappresaglie contro le comunità sunnite dell’Iraq settentrionale, ritenute colpevoli di aver appoggiato l’avanzata dello Stato islamico. Stando alle testimonianze dei residenti, ad attaccare i villaggi sarebbe stata una delle milizie yazide nate in seguito al genocidio del Daesh. Tra gli assalitori, i sopravvissuti raccontano di aver riconosciuto i loro vicini dei villaggi yazidi circostanti: da settimane le tensioni andavano crescendo nell’area, man mano che i primi sfollati rientravano nel Sinjar, scoprendo una fossa comune dopo l’altra. “Ma il fatto più grave – ricorda Donatella Rovera di Amnesty, che si è occupata delle indagini sul campo – è che nel gruppo erano presenti elementi delle forze di sicurezza curde, che sembra non abbiano mosso un dito per fermare quel bagno di sangue”. Secondo un’ulteriore indagine condotta da Amnesty alla fine del 2015, qualche tempo dopo yazidi e Peshmerga sarebbero tornati nell’area, distruggendo con i bulldozer ciò che restava delle abitazioni incendiate. Lo stesso destino è toccato ad almeno altri dieci villaggi sunniti sparsi tra i governatorati di Ninive e Kirkuk, metà dei quali sorgeva sul versante est del monte Sinjar. “Da allora – continua Rovera – non ci risulta che simili episodi si siano ripetuti: se il nostro rapporto ebbe un merito, fu di certo quello di puntare i riflettori sulle autorità curde, che ben presto si resero conto di essere sotto scrutinio da parte dell’opinione pubblica internazionale. Ma va detto che queste affermazioni si basano unicamente sullo studio delle immagini satellitari: perché in seguito alla liberazione di Sinjar city non ci è più stato consentito di accedere alla zona”.
Anche in questo caso, in effetti, la realtà potrebbe essere ben più sinistra di quanto appare. Secondo Jameel Chomer, faide e rappresaglie continuerebbero tuttora a consumarsi sottotraccia, seppur con modalità meno eclatanti. “Non si tratta più di operazioni paramilitari – precisa Chomer – ma di vendette private, piccoli regolamenti di conti tra clan”. “Cose del genere – continua – sono sempre accadute negli ultimi due anni. E continueranno ad accadere fin tanto che le autorità curde e irachene non si decideranno a consegnare alla giustizia i responsabili del genocidio. In caso contrario, ci saranno dei seri problemi a Sinjar. Per trent’anni abbiamo convissuto pacificamente con i nostri vicini sunniti: nel 2005, quando la coalizione internazionale attaccò al-Qaeda a Tal Afar, gli sfollati li accogliemmo nelle nostre case. Nove anni dopo, quegli stessi uomini hanno giurato fedeltà ad Abu Bakhr al-Baghdadi: hanno condotto il Daesh nei nostri villaggi, partecipato al saccheggio delle nostre case e allo stupro delle nostre donne. Come possiamo tornare a vivere con loro? Io dico che finché giustizia non sarà fatta, nessuno potrà parlare di pacificazione agli yazidi. E di certo non sarò io a farlo”.
@Stortantonio
Lo scorso 9 settembre, una violenta protesta è esplosa all’apertura dell’International Film festival di Dohuk, nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. In cartellone, quella sera, c’era la première di “Reseba” (“Il vento oscuro”), pellicola del regista curdo Hussein Hassan che, attraverso le vicende di una giovane coppia yazida, ricostruisce il genocidio perpetrato dallo Stato islamico nella vicina valle del Sinjar: lei verrà rapita e venduta come schiava, lui si arruolerà in una brigata Peshmerga per ritrovarla e portarla a casa.